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Opinione scritta da Gianni Izzo

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Opinione inserita da Gianni Izzo    10 Febbraio, 2025
Ultimo aggiornamento: 10 Febbraio, 2025
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Dietro al moniker Ruinforge, si nasconde il nome di un vero e proprio giovane artista trasversale, Jordan Fowler. Oltre ad esser un grande chitarrista, lo statunitense Jordan si occupa di scultura e arte contemporanea che, da quello che ho potuto notare, è la sua più grande passione, sulle sue pagine social primeggiano sopratutto le sue opere d’arte.
Mentre di questo esordio dei suoi Ruinforge, che tra l’altro è una one-man band, c’è purtroppo pochissimo a livello di sponsorizzazione, il che è un peccato, perché l’esordio “Mist And Myth” non è niente male.
Tutto quello che ruota intorno ai Ruinforge nasce dalle sole mani di Fowler, che si è occupato praticamente di qualsiasi cosa: songwriter, arrangiatore, poli strumentista, growler e screamer, produttore, fonico, anche il bell'artwork del disco è opera sua.
Il sound è un folk melodic death di stampo finnico, prendete gli Ensiferum meno scontati, i Wintersun meno ampollosi e aggiungeteci del bel shredding che ricorda il compianto Alexi Laiho, ed avrete un’idea di ciò che è “Mist And Myth”. Un buonissimo debutto, che omaggia quelli che suppongo siano gli artisti e le compagini di riferimento del buon Jordan Fowler.
Anche a livello di testi, niente è scontato, si condannano dogmi e cecità umane, lo sfruttamento della natura, l’indifferenza atavica di fronte a dei pericoli che l’uomo stesso sta creando per poi far finta di non vederli.
A parte quel primo minuto dell’opener dove sentiamo un tappeto di tastiere in solitaria un po’ troppo "plasticose", già dalla seconda parte dell’opener, all’entrata degli altri strumenti, ci ritroviamo subito catapultati nel mondo dei Ruinforge, per un'intro strumentale che tentenna all'inizio, ma che ci meraviglia improvvisamente.
Tanta melodia nella musica, forse un po’ derivativa ma mai scontata, mai fine a se stessa, il tutto retto da un ottimo impianto ritmico che regge benissimo il mood più graffiante e oscuro del lavoro. Il viaggio continua tra momenti sognanti e blast beat esplosivi. Non ci sono particolari cali nella proposta, si tira avanti lisci, con canzoni lunghe il giusto per esprimere emozioni e tecnica funambolica, che rimane sempre al servizio del brano e mai autocompiacente. Il tutto fino alla title-track finale, l’unica traccia che si dilunga fino a quasi a 10 minuti di musica, ma che volano via in un baleno, tanto che, se vi piace il genere, avrete subito voglia di riascoltare “Mist And Myth” ancora e ancora. Complimenti, c'è solo da impegnarsi un po' più nella promozione di questo lavoro, soprattutto in questo tempo, dove escono dischi su dischi, e molti musicisti come Fowler, rischiano di rimanere ingiustamente ignorati.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    08 Novembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 13 Novembre, 2024
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Contrariamente a quanto si possa pensare dal moniker e dal sottogenere proposto, i Drunkelweizen (gioco di parole tra la parola "Drunken" e la Dunkelweizen, una delle varianti più scure e alcoliche della birra tedesca) si ispirano solo al sound dell'Europa centro settentrionale, ma sono originari dell’Oregon, Portland.

Il loro vuole essere uno scanzonato folk metal a tema piratesco, lo suggerisce già l’artwork fortemente fumettoso e ironico. La musica della band si esprime soprattutto sulle frange estreme del folk metal, tanti growling e screaming, a cui si attorcigliano cori da pirati in cui riecheggiano gli Alestorm. Già da tempo nella scena underground americana, i Drunkel arrivano a questo loro primo full-length autoprodotto solo in questo 2024. Vi aspettano 8 tracce, per 5 o 6 canzoni in tutto (dipende da come vi ponete di fronte l’ultima “FLM”), più un’innocua intro ed un breve interludio.

Per quanto piacevoli siano le musiche, che cercano di coinvolgere lo spettatore con un bel metal massiccio e allegro tra svaghi cari ai Trollfest e stacchi folk, anche se la line-up non comprende qualsivoglia strumento tipico tradizionale, né tastiere, i brani sono arricchiti da arrangiamenti sintetizzati, i Drunkelweizen, vista la supposta prerogativa di essere in primo luogo una party metal band, hanno bisogno davvero di sforbiciare quasi tutti i pezzi. I nostri ragazzi hanno tante buone idee, ma si perdono spesso in questo loro mare, arrivando a sbatterci brani di sette-otto minuti, senza che ce ne sia veramente bisogno. Se il gioco comunque funziona con “Robinhood of Moonshine”, o nel crescendo di uno dei brani più riusciti “St. Brigid”, in altri momenti l'ascolto risulta un po’ stancante. Complici anche una produzione forse troppo artigianale e degli arrangiamenti fin troppo basici. Sono aspetti questi da perfezionare per avere una sufficienza piena. Probabilmente vent’anni fa avremmo avuto un parere più entusiasmante, ma nel frattempo di folk metal band piratesche o solo autoironiche, ormai ne abbiamo a bizzeffe, quindi c’è bisogno di quel quid in più per rimanere davvero impressi.
“Pioneers Of Alcohol” finisce con la già citata “FLM”, un pezzo volutamente caotico, una sorta di jam stralunata tra grida e nonsense, potrebbe piacere ad alcuni, io ammetto di non averlo trovato un granché. In generale però il senso della melodia accattivante i quattro americani la hanno, ma bisogna lavorare di più nello smussare qualche angolo ancora troppo rugginoso della propria musica.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    16 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 17 Luglio, 2024
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Riassumendo brevemente, i finlandesi Verikalpa sono attivi addirittura dal 2006, trovano la loro label di riferimento, la Scarlet Records, diversi anni più tardi: cominciano quindi a sfornare full-length dal 2018 e con “Tuomio” arriviamo alla quarta uscita per i nostri folk metallers nordici. Secondo il loro ufficio stampa, il nuovo disco è il più accessibile prodotto della band, pronti quindi per un pubblico più vasto, con i synth che vanno a ricamare allegre e battagliere melodie, rette dalle ritmiche Extreme Metal di fondo, un binomio caro alla stragrande maggioranza delle band Folk Metal. Facendo un veloce ascolto anche dei precedenti lavori (sulle nostre pagine potete trovare le recensioni dei primi due dischi), possiamo dire che sicuramente negli anni i Verikalpa, già bravi tecnicamente nel primo disco “Taistelutahto”, hanno semplicemente proseguito fino a questo 2024 ripetendo una ricetta ormai non più innovativa da parecchio tempo, sia a livello musicale che testuale, ma che si fa voler bene dagli amanti del Folk Metal estremo, allegro o finto guerrigliero che sia. Fondamentalmente sono una buona party band, che cerca di toccare le corde melodiche giuste. Dalla loro hanno anche una semplice ma ottima parte ritmica che fila liscia sia nei mid-tempo, ma ancor meglio ad alte velocità, per coinvolgere, far ballare e scapocciare il proprio pubblico. Non ho trovato insomma un’impostazione più easy in questo disco rispetto ai precedenti; ho anzi trovato una band che nel tempo ha saputo aggiustare sempre più il tiro della propria offerta, smussando gli angoli più acerbi, creando dischi che si lasciano ascoltare, che prendono ispirazione dai lavori, quelli sì, davvero meno ostici dei compagni Finntroll, per perdersi tra sound da birreria ed epiche cavalcate, con chicche che rimangono subito impresse: "Arvon Tuomari", “Noijan Sauna”, “Hakka Hakka”. Altre tracce effettivamente si presentano e se ne vanno senza lasciarci qualcosa di più che la solita immagine nordica, con i suoi pub, la mitologia, la birra e le atmosfere fantasy che ci accompagnano ormai da più di un ventennio, da quando questo sottogenere è esploso in tutte le sue desinenze, con i suoi strumenti popolari veri o, come in questo caso, sintetizzati, e l’impatto Death Metal più eroico, epico, che si fonde con le ritmiche danzerecce del Folk nordico. Se non amate la ricetta, i Verikalpa non sono la band che vi farà cambiare idea sul Folk Metal, se invece la vostra vita è priva di senso senza la mitologia norrena o i racconti di Tolkien, siamo sicuramente di fronte a un buon prodotto, suonato bene, prodotto bene, che vi potrà portare via tra le lande nevose del nord per un’oretta, prima di tornare a boccheggiare nella torrida, dannatissima, estate mediterranea.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    17 Aprile, 2024
Ultimo aggiornamento: 17 Aprile, 2024
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Direttamente da Portland in Oregon, gli Idolatrous arrivano al loro full-length di debutto sulla lunga distanza, il primo EP “Asgard” è datato 2013. “Sorrow Of Midgard” è stato pubblicato lo scorso anno, sempre dall’attenta WormHoleDeath. Sebbene americani, la proposta musicale degli Idolatrous è abbracciata a doppia mandata al sound nordeuropeo; i Nostri attingono a piene mani da quello che per estrazione è stato per anni il Melodic Death svedese e, per tematiche, da quella parte poi etichettata come Viking Metal. Epico, battagliero, melodico e serrato quanto basta, con una intro cinematica abbastanza buona, anche se gli arrangiamenti sinfonici non sono così articolati, ma la melodia ci fa entrare bene nel mood del disco e pavoneggiandosi pomposamente ci prepara a ciò che verrà dopo. Dieci tracce debitrici in un modo o nell'altro ai signori che tra tutti i gruppi Viking Metal sono sicuramente quelli più popolari, gli Amon Amarth, “Asgard” ne è un forte richiamo. Parliamo dei primi dischi degli Amon, quando era ancora in ballo tutto, e il termine "viking" non era per forza riferita al loro stile. Se da una parte gli Idolatrous non aggiungono molto al più classico Viking Metal, aspettatevi comunque dei brani che sanno dosare melodia e violenza, tra growling cavernosi, blast beat, e ottimi riff di chitarre. Tecnicamente diligenti, la band americana compone brani come “Eternal” e “The Wolf’s Ghost” che faranno la felicità di chi ama questo tipo di sound, quando mostra il suo lato epico più oscuro e tellurico.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    04 Gennaio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Gennaio, 2024
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Attivi dal 2006, ma il primo full-length ufficiale “Awaiting Dawn” arriva nel 2014; i danesi Heidra ci propongono un Melodic Death/Viking Metal, con sufficienti incursioni in trame Folk, ma soprattutto impattanti melodie e sinfonie Power. “To Hell or Kingdom Come” è un album sufficientemente buono, molto compatto, pieno di rabbia melodiosa presente un po’ in tutte le canzoni. Ben bilanciate le parti estreme con quelle più classiche, così come le harsh vocals e le clean che in più di un’occasione mi hanno ricordato l’ugola del buon ex-Iced Earth, Matt Barlow. La produzione è potente, diretta, il suono dei riff di chitarra, delle parti ritmiche e della voce di Bryid, colpiscono subito l’ascoltatore, in generale parliamo di brani scritti bene, ne sono esempi i singoli “Dusk” e la title-track. Detto questo, è pur vero che gli Heidra, sebbene abbiano una buona colonna portante per quel che riguarda il songwriting, che raramente ci tradisce, se non quando il passo rallenta e l’epicità lascia spazio a qualche momento fin troppo mesto e piatto, non sono neanche un gruppo che si distacca troppo dai cliché del genere, sia si parli del concept dei brani, sia per la musica stessa che si adagia senza indugi alle bands storiche che hanno fatto di questa miscela tra rabbia ed epicità il loro vessillo. Forse se fosse uscito un ventennio fa, il disco sarebbe stato accolto con più calore, oggi posso dire che “To Hell or Kingdom Come” piacerà sicuramente agli amanti di quella facciata del genere che punta molto ad attrarre masse con melodie messe a puntino con lo scopo di imbarcare più metalheads possibili, che va bene, ma ci vuole quel quid in più per portare l'entusiasmo ad un livello più alto.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    27 Settembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 27 Settembre, 2023
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Ripeschiamo dal 2022 il terzo album dei finlandesi Gladenfold, intitolato “Nemesis”. La band già mi fece un buon effetto con il secondo album “When Gods Descend”, ma devo dire che nel frattempo ha saputo alzare l’asticella. “Nemesis” si presenta con la ricetta già preparata nei lavori precedenti tra Power, Symphonic ed Extreme Metal. Ma i Gladenfold riescono a cambiare di nuovo prospettiva, teatralizzando i brani, l’eclettico vocalist Esko Itälä ci regala un’interpretazione davvero ispirata, per un album che si destreggia tra i consueti cori, oggi ancor più solenni ed epici, che lo accompagnano o gli fanno da contraltare in un continuo sali scendi di emozioni, che nei momenti più tirati potrebbero anche ricordare i Cradle Of Filth, con un approccio più fantasy e meno orrorifico, ma le orchestrazioni, gli arpeggi pianistici, poggiano sempre un piede in quel filone, per poi rasserenarsi tra galoppate Heavy/Power, sussurri, toni caldi, ed un pizzico di Folk nei brani più d’atmosfera. “Nemesis” è sicuramente l’album meno diretto dei Gladenfold, proprio per la gran quantità di lavoro di arrangiamento che c’è stato dietro e perché la maggior parte dei brani non segue un filone di semplice strofa e ritornello, ma stupisce con luci e oscurità, con malinconia o trionfalismi in una bella colonna sonora metallica. Ottimo lavoro quindi, da sentire più volte per entrarci in sintonia, ma che può far felici gli amanti del Symphonic Metal in tutte le sue declinazioni. Unico pezzo un po’ sottotono rimane “Solitude’s Bane”, proprio per la sua eccessiva linearità e pulizia patinata che si accosta prepotentemente dalle parti del Power più freddo e lineare dei conterranei Stratovarius, ma che nell’insieme non ci sta un granché bene.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    13 Luglio, 2023
Ultimo aggiornamento: 13 Luglio, 2023
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Mentre i pisani Wind Rose si stanno godendo tutto il successo meritato nel tour tra Europa ed America, andiamo a ripescare il loro ultimo disco, uscito ormai un annetto fa per la Napalm Records, con cui la band sottoscrisse il contatto nel 2019 per l’ottimo “Wintersaga”. “Warfront” è il naturale proseguo di quel disco, Power Metal epico e roccioso, figlio di band quali i Blind Guardian più Tolkeniani, senza ancora esser finiti nel tunnel del sinfonico prolisso a tutti i costi. “Warfront”, al netto di una copertina un po' deludente, è una bilancia quasi perfetta, proprio come “Wintersaga”, di pezzi che si lasciano ascoltare dipingendo ad ogni nota ed ogni arrangiamento fantastici scenari fiabeschi, goderecci, ballabili, pogabili. C’è da dire che sembra che la band abbia definitivamente abbandonato quelle sperimentazioni musicali presenti sui primi lavori. I Wind Rose di oggi sono ormai entrati in quella che sembra la strada del momento di molte band: costruirsi un’immagine solida, concettuale, sia dal punto di vista visivo che musicale, la cui storia non finisce con il disco in questione, ma continuerà finché il gruppo avrà idee e forze di farla funzionare. Un po’ come i pirati Alestorm, i lupi mannari Powerwolf, i soldati Sabaton, e così via. Oggi il Dwarf Metal dei Wind Rose risulta essere vincente, Power e Folk sinfonico e tellurico, sapientemente costruito, per poter essere piacevolmente ascoltato sul disco, ed i cui refrain, come stiamo vedendo, rapiscono ed esaltano i metalhead ad ogni live. Non ho trovato particolari punti deboli, “Army Of Stone”, “Tales Of War”, “Togheter We Rise” hanno un appiglio immediato, che si contrappone ad altre tracce leggermente più complesse, ma che con un paio di ascolti in più, vi sapranno altrettanto rapire. Ovviamente se amate la letteratura, cinematografia fantasy, e siete appassionati di videogiochi e giochi di ruolo, il tutto sarà molto più agevole e facile, perché è proprio su questi elementi che i Wind Rose puntano. Complimenti alla band, un ennesimo esempio di come possiamo essere orgogliosi di molti artisti nostrani, che purtroppo rimangono all’ombra nel proprio paese, ed in questo non si godono il successo che meriterebbero, ma che per fortuna possono respirare a pieni polmoni all’estero.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    09 Gennaio, 2023
Ultimo aggiornamento: 11 Gennaio, 2023
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Il voto questa volta è troppo severo lo ammetto;"Deceivers", ultimo lavoro degli Arch Enemy, uscito ormai da qualche mese, non è un disco mediocre, ma non riesce nell'intento di accaparrarsi una sufficienza piena. Se lo avessimo tra le scelte di voto, avrei dato un 6-. Dopotutto, al contrario del precedente “Will To Power”, quello si davvero mediocre, gli Arch Enemy ci hanno risparmiato quasi del tutto le melodie tristemente scontate e commercialotte. Persino l’opener, nella quale la singer Alissa inserisce abbondanti dosi di clean vocals, riesce a convincere. E sappiamo quanto io trovi odiose tutte le decine e decine di giovani band “Hardcore” e/o “Melodeath” che con poca autostima passano da strofe con groove e perenni breakdown, a ritornelli con coretti e voci da Pop band adolescenziali. Gli Arch Enemy di “Handshake With Hell” invece si ricordano di avere anche una certa età per rischiare di ridicolizzarsi così tanto, quindi rimangono ancorati tra le trame dell'Heavy Metal, e con una pennellata finale dai toni dark, ottimizzano quella che si presenta come una buona opener. La title-track poi spazza via anche le melodie accattivanti della precedente, con un’aggressività che non si sentiva da tanto nella band di Amott. Anche i brani più diretti e semplici funzionano: “The Watcher” e “Poisoned Arrow” sono sostenute da due semplici melodie, come lo era “Pilgrim”, ricordando la notte dei tempi degli Arch Enemy, eppure sono quei brani che ti va di riascoltare continuamente. Ci sono altri momenti che sicuramente meritano nel corso di “Deceivers”, gli Arch Enemy cercano di rendersi interessanti, con passaggi serrati e articolati che ritornano spesso, e con riff abbastanza graffianti e più elaborati di ciò che si è sentito nell'ultimo periodo della storia della band. Purtroppo, non sempre le cose funzionano, e verso il finale Amott ed i suoi non riescono a tener testa al buono presentato nella prima metà del disco. "Deceivers", nonostante i buoni propositi, scivola via in modo anonimo. Un plauso agli Arch Enemy per averci almeno provato questa volta a fare qualcosa di meno ovvio, un po’ più oscuro e più accattivante anche per i metalheads che hanno amato i loro primi album. Parliamo di un piccolo passo in avanti, la miglior prova del periodo Alissa White-Gluz, ancora non sufficiente perché troppi momenti risultano freddi e fini a se stessi, nonostante i tentativi tecnici con cui sono stati costruiti, ma sicuramente in "Deceivers" qualche pezzo lo possiamo considerare all’altezza di un nome importante e dei grandi musicisti che lavorano dietro questo progetto.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    27 Novembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 2022
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Uscito ormai da qualche mese, il nuovo “The Great Heathen Army” è sicuramente migliore della sua orribile copertina, ma di fatto, nonostante le premesse di essere un album più cupo o duro o quant’altro, è solo un ennesimo lavoro che segue nel bene e nel male le ultime uscite della band: una manciata di brani buoni, qualche filler e qualcosa di decisamente piatto e non riuscito, questa volta tocca proprio alla title-track il premio per il brano più bruttarello. Tutta roba che serve alla band per ripartire a far faville con i suoi tour, quelli sì, sempre più spettacolari da ogni punto di vista. Gli Amon Amarth non hanno più fame, il grande successo lo hanno ottenuto e da quel momento sembrano essere stati inglobati dalla Marvel (di cui sono comunque un grande fan), quindi tanti effetti speciali, piacevoli, avvincenti, divertenti, ma per usare un parallelismo cinematografico, gli Amon Amarth sono ormai una “band per famiglie”: cattiva il giusto, melodica il giusto, accattivante il giusto, cercando di non scontentare nessuno, dal bimbo al nonno, non che ci sia niente di male. Nuovamente ritroviamo molti riff già ascoltati in una sorta di eterna autocitazione, “Get In The Ring”, “Find A Way Or Make One” ne sono la rappresentazione più emblematica, melodie telefonate che già sai dove vogliono arrivare ancor prima che comincino a suonare sul serio. Poi c’è la parte più folkettara e battagliera con “Heidrun” ed i suoi cori da stadio, un simpatico featuring con i Saxon. Chi altri poteva suonare se no un brano intitolato “Saxon And Vikings”? Devo dire che il risultato non è niente male. Sembra si faccia un po’ più sul serio con la tiratissima “Oden Owns You All”, quasi a voler rimarcare il più lontano passato. Tra il mediocre ed il sufficiente, tra il bello ma scontato, tra gli episodi più riusciti, arrivano due pezzi da novanta: “Dawn Of Norsemen”, e la conclusiva “The Serpent’s Tail”, melodie rabbiose e atmosfere eroiche e drammatiche. Come è già successo ultimamente, “The Great Heathen Army” sarà odiato da chi ha idolatrato la band prima che si potesse permettere di andare in giro con gigantesche navi vichinghe di cartapesta e fuochi pirotecnici, probabilmente sarà amato dai più giovani, oggettivamente è un ennesimo album sufficiente. Se poi questa sia una cosa positiva o negativa sta a voi deciderlo.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    25 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 25 Settembre, 2022
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Contrariamente a quanto asserito su queste pagine dalla mia collega, ad essere sincero, ho considerato il precedente “Course of the Crystal Coconut”, il fondo del barile degli Alestorm, che con il tempo hanno elevato la parte grottesca e ironica della loro musica, a protagonista principale del proprio modo di proporsi, dimenticandosi di essere amati sì per la loro stravaganza, ma anche per saper costruire delle belle canzoni. Se mancano le idee, allora si può essere simpatici quanto vogliamo, ma rimaniamo pur sempre musicisti e non commedianti. Il precedente disco per quel che mi riguarda è stata una mezza delusione, dopo un primo brano buono e qualche sperimentazione lontana dal Metal tipo “Tortuga” che è stata comunque un qualcosa d’interessante, ho trovato l’intero lavoro debole e pieno di filler.
Cosa cambia con questo “Seventh Rum Of Seventh Rum”, titolo che chiaramente rimanda al noto album degli Iron Maiden? Semplicemente che gli Alestorm hanno fatto un passo indietro, hanno livellato meglio tutti gli ingredienti da sempre proposti, e la gran parte delle canzoni è perfettamente riuscita. Non sono certo gli Alestorm dei primi album, come succede un po’ anche ai migliori musicisti del mondo, un po’ di autocitazioni ci sono, un po’ di paraculate anche, ma non parliamo di cose tipo il primo singolo “P.A.R.T.Y”, gonfie di bit danzerecci e discotecari, che comunque non è neanche a male, ormai siamo abituati ai super synth anni '80/'90, vedi i Beast in Black. In questo settimo lavoro la band di Christopher Bowes ci sa portare di nuovo tra scorribande di pirati, dal sapore videoludico e fumettoso, tanta epicità, durezza, cori e così via. E’ stato davvero un piacere ascoltare “Seventh Rum…” dall’inizio alla fine, forse annoierà subito “Under Blackened Banners” perché ha il solito giro di accordi ormai abbondantemente ridondanti, tipo qualsiasi hit estiva concessaci a forza dal mainstream italico, ma per il resto, si respira tanto rum, battaglie epiche e si sente la salsedine dei mari in tempesta con una gran bella dosa di ironia, giusto in tempo per il ritorno di Monkey Island. Ben fatto.

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