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Il tempo è spesso o quasi tiranno e non permette mai di fare le cose con giusta calma, nemmeno per gli eventi più piacevoli. Dopo una dura giornata di lavoro bisogna affrontare un bel tragitto con tanto di incidenti e traffico durante il percorso causa ora di punta. In primis bisogna fare le dovute scuse dato che era prevista l’intervista agli headliner ma non c’è stata alcuna possibilità di farla causa tempi strettissimi ed orari improponibili senza nessuna chance di spostare l’orario di incontro. 

Si arriva quindi al locale giusto in tempo per l’inizio dello show della prima band. Si nota una discreta fila all’entrata dell’Hall (locale nuovo a Padova) che fa presagire un’affluenza alta ma nel complesso i numeri non sono stati così esaltanti, anzi si potrebbe affermare che siano stati deludenti. Molti i giovanissimi, alcuni anche con i genitori, segno che il neo-power metal o melodic power è spesso il trampolino di lancio per iniziare il viaggio nel mondo metallico.

TEMPLE BALLS

Con un anticipo di quindici minuti, annunciato all’ultimo, rispetto al previsto salgono sul palco i primi opener ovvero i Temple Balls. Il quintetto svedese, con all’attivo un paio di album, è praticamente sconosciuto o quasi e quindi la voglia di impressionare positivamente il pubblico è grande. Il combo nordico offre un set incentrato molto sull’immagine (decisamente glam alla Europe) che pesca molto dagli anni 80’ quelli più patinati ed il genere non poteva che essere hard rock melodico/sleaze rock con tutti i pregi e difetti che ne derivano. Le canzoni sono potenti, frizzanti e molto danzerecce e va dato atto ai musicisti di avere una buona preparazione tecnico/compositiva. La voce del singer, seppur non impressionante, è perfetta per i pezzi così pieni di melodie solari e zeppi di cori (dal vivo fin troppo plastificati, come se fossero delle basi). Lo show procede bene tra pose da rocker, assolo di chitarra da shredder fin troppo messi in mostra ed incitamenti continui al pubblico che ha gradito molto la prestazione. Aldilà della latente originalità, che non inficiava particolarmente il concerto, il problema più grosso dell’intera serata è dipeso dai suoni. Per i Temple Balls tutto arrivava in maniera strana, indiretta come se tutto fosse finto. Le chitarre sparivano e ricomparivano a volumi da centro parrocchiale come pure il basso e la voce anziché esplodere pareva nascosta sotto una campana di vetro. Non si è quindi capito nulla di ciò che accadeva se non qualche assolo o i ritornelli.

EDGE OF FOREVER

Con gli americani Edge Of Forever si sperava in meglio dato che nel soundcheck si sentivano gli strumenti in maniera decente. Purtroppo il combo dopo un paio di brani finisce nella stessa trappola dei colleghi nordici. Il loro gothic rock/metal moderno con voce femminile aveva le migliori intenzioni per coinvolgere gli spettatori ma i brani si sono rivelati soporiferi seppur ben suonati con qualche passaggio interessante. Anche qui le chitarre erano quasi azzerate (soprattutto la ritmica mentre la solista arrancava a stento) con una cantante sicuramente sexy ma totalmente incapace di dare una sferzata in qualsiasi direzione causa un’ugola equivalente al miagolio di un gattino incrociata con uno stile pop modello Laura Pausini. In ogni caso il pessimo lavoro al mixer non ha fatto capire nuovamente il reale valore delle bands facendo loro solo del male specie per questa band che aveva all’attivo quattro dischi. 

SONATA ARCTICA

Il senso di tragedia è sempre più palpabile e che quasi nessuno se ne renda conto è altrettanto preoccupante. I Sonata Arctica, puntualissimi, salgono sul palco sulle note di Ritorno al Futuro aprendo con a A Little Less Understanding dall’ultimo disco Talviyö che non ha convinto molto sia il pubblico che la critica. Sempre dall’ultimo album vengono offerte Who Failed the Most, Storm the Armada, Cold e Whilrwind, segno che il gruppo crede molto nelle nuove composizioni, mentre vengono suonati estratti da The Ninth Hour (“Closer to an Animal”), Stones Grow Her Name (“I Have a Right” e “The Day”) e Pariah’s Child (“X Marks the Spot”) finendo poi con la tripletta “Tallulah” e “Black Sheep” da Eclipse e “Fullmoon” da Ecliptica. I bis vengono concessi con la traccia Losing My Insanity, cover di Ari Koivunen e da “Life” sempre tratta dall’album The Ninth Hour includendo ovviamente in coda la celeberrima Vodka. Aldilà della scaletta la performance non ha brillato in nessun campo. Mr. Kakko pareva un residuo pop alla The Calling sia nell’abbigliamento che nella prestazione sul palco. Vocalmente si sente che fa sempre più fatica a spingere in alto prediligendo continuamente tonalità molto più basse mentre la band ha fatto letteralmente il proprio mestiere ma senza sussulti o guizzi particolari. Ma la cosa più grave è il terrificante operato al mixer che ancora una volta sega le gambe. La chitarra era totalmente inesistente come se si trovasse sott’acqua, il basso stava ancora chiuso nel tourbus e le tastiere uscivano e rientravano dal backstage ma anche la batteria aveva dei suoni da denuncia penale. Si mettano insieme tutti questi problemi e ci si può rendere conto di cosa ci si sia ritrovati ad assistere durante la serata ossia un concerto pop. E non è un problema di acustica perché finora il locale ha sempre offerto concerti con suoni ottimali. Per chi ha speso 35 euro per vedere un evento così pietoso, non imputabile totalmente ai gruppi, è stato sicuramente una delusione non da poco. Forse il peggior concerto dell’anno! Un gran peccato!

Setlist:

Intro (Back to the Future)
A Little Less Understanding
Closer to an Animal
Play Video
Whirlwind
The Day
I Have a Right
Cold
Storm the Armada
X Marks the Spot
Who Failed the Most
Tallulah
Black Sheep (preceded by Instrumental Exhibition)
FullMoon

Encore:

Losing My Insanity (Ari Koivunen cover)
Life (with "Vodka" outro)


Pubblicato in Live Report

Dopo 20 anni di carriera, al sesto album, i Dark Lunacy hanno deciso di rinverdire le sonorità degli esordi dandone però un'impronta più attuale. Il risultato è il disco "The Rain After the Snow", un vero e proprio capolavoro che si attesta come probabilmente la miglior produzione della Symphonic Melodic Death metal band parmense. All Around Metal ha incontrato Mike Lunacy e Jacopo Rossi, rispettivamente vocalist e bassista della band.

Ciao Mike, ciao Jacopo e benvenuti sulle pagine di All Around Metal. A due anni dal magnifico “The Day of Victory” siete tornati con un altrettanto splendido “The Rain After the Snow”, con due nuovi innesti in line up: cosa è successo in questi due anni e come siete arrivati a scegliere Davide Rinaldi e Marco Binda?
MIKE: La costruzione di un album dei Dark Lunacy attraversa diverse fasi operative. Si parte da un’idea di fondo che successivamente assumerà l’identità di concept. Come è sempre accaduto nella storia della band il concept è la base, le solide fondamenta sulle quali si inizia a lavorare. Deciso quindi il tema portante, il filo conduttore del messaggio finale, si inizia a costruire le melodie che daranno forma al disco. Questo passaggio è determinante perché viene richiesto ai musicisti di andare oltre al fatto di saper suonare. Si chiede loro essere in grado di calarsi nella parte come autentici personaggi appartenenti ad una storia… e non sempre accade che tali richieste trovino il totale appoggio da parte di tutti. A quel punto, si deve scegliere tra il compromesso e la coerenza. Inevitabile quindi per chi ti sta parlando, optare per la seconda. Davide e Marco sono quindi la diretta conseguenza di ciò che ti ho appena descritto. Entrambi i ragazzi hanno saputo cogliere l’essenza primordiale del progetto, farla propria e trasmetterla con estrema attitudine attraverso i loro strumenti. Di conseguenza, nel momento in cui all’interno della band si percepisce la sinergia ideale, anche i rapporti umani fioriscono e si radicano indelebilmente tra tutte le persone che lavorano al disco. Ritengo quindi Davide e Marco, una delle cose più importanti che i Lunacy potessero incontrare.

Qual è stata la genesi di quest’ultimo lavoro e come si è sviluppato?
JACOPO: Tutto è cominciato con la volontà di Mike di recuperare il sound originario della band, quello che aveva reso celebri i Dark Lunacy. Quando mi ha incaricato di comporre interamente il nuovo materiale ero entusiasta e mi sono dato da fare, lavorando quotidianamente come un ossesso, per un anno intero. Dopo aver scritto i brani li ho passati a Marco e Davide e li abbiamo provati assiduamente in saletta prima della registrazione, così da poter dare il massimo in fase di incisione. Per quanto riguarda i ragazzi del coro hanno provato anche loro le parti per mesi: man mano che finivo un arrangiamento lo consegnavo al direttore del coro, Leonardo Morini, il quale lo faceva provare a ragazzi. Il quartetto d’archi, invece, ha eseguito tutto direttamente in studio di registrazione.

Vorreste parlarci più nello specifico delle tematiche di “The Rain After the Snow”?
MIKE: The Rain After the Snow è sostenuto da due colonne portanti. La prima è quella delle sonorità. La seconda è quella della personalità. Riguardo alle sonorità, abbiamo voluto recuperare le atmosfere degli esordi, atteggiandole però ad un passo più attuale. Quelle sonorità che hanno dato unicità alla band. Il disco è stato realizzato riportando sulla scena la componente classica composta da un quartetto d'archi, un pianoforte a coda e una corale polifonica di quaranta elementi. Melodie di grande impatto emotivo, enfatizzate, oserei dire, esaltate dai tipici riff metal “Lunacyani”. La seconda colonna è ovviamente la parte emozionale, la guida spirituale che governa le maree dell’animo turbato e al contempo speranzoso, nel quale Mike trova se stesso e la condivisione emotiva con i proprio fan. The Rain After the Snow è un viaggio introspettivo, intimo e sincero, che descrive malinconie e speranze di un anima nel momento della sua personale resa dei conti.

Nelle info che hanno accompagnato il promo recensito, parlate di rendere attuale le sonorità degli esordi. È a tutti gli effetti un ritorno alle origini?
JACOPO: Riteniamo di sì, ma in veste attuale, appunto. I Dark Lunacy degli esordi erano una band che univa parti e temi di matrice classica ad una componente death metal di stampo scandinavo, e The Rain After The Snow mantiene lo stesso binomio, traslato solo all’anno corrente per quanto riguarda la componente metal e di arrangiamento; ho in sostanza immaginato i Dark Lunacy come se non avessero mai perso la loro strada negli ultimi 20 anni. Se nei primi 2000 i riff alla At The Gates e co. spopolavano in un genere all’epoca nato da non molti anni, adesso, a distanza di un ventennio, quegli stessi riff risultano mostruosamente depersonalizzanti, così come certe armonizzazioni chitarristiche, e quindi non aveva senso riproporre quella componente con gli stessi stilemi. Probabilmente qualcuno della “vecchia guardia” avrebbe apprezzato, ma la musica deve andare avanti. Comunque, a scanso di equivoci, non ho fatto nulla di avanguardistico, l’ho solo un po’ svecchiato.

Immagino sia ovvio voi siate entusiasti del risultato finale, ma com’è stato accolto l’album da critica e pubblico?
JACOPO: Sì, siamo decisamente soddisfatti! L’album sta ricevendo consensi entusiastici praticamente ovunque, soprattutto sui fan, che è la cosa più importante. Mike mi ha più volte detto che non li sentiva così presi dai tempi di The Diarist! Sul fronte recensioni The Rain After The Snow è andato molto bene anche lì. Ovviamente qualche voce fuori dal coro c’è stata, come è inevitabile che sia, ma davvero poche.

Andando un attimo a parlare dei due singoli, come si sono sviluppate le riprese dei due video, “Gold, Rubies and Diamonds” e “Howl”? Riguardo quest’ultimo so che avete avuto qualche piccolo problema… termico.
MIKE: Entrambi i video sono stati realizzati dalla Lucerna Films con la quale ci siamo trovati assolutamente a nostro agio, quindi anche i momenti più duri siano stati superati con grande naturalezza. Farei comunque una distinzione tra i due video. “Gold, Rubies and Diamonds” è stato, per chi ti parla, un momento magico perché ho potuto lavorare fianco a fianco con mio figlio Pietro e la consapevolezza di aver suggellato questo momento in un filmato, che proseguirà degli anni a venire, mi rende orgoglioso a prescindere. Essendo poi un video che ha richiesto una sola location devo dire che il tutto si è svolto in modo molto tranquillo, naturale e, di conseguenza, piacevole. Discorso diverso invece è stato per Howl, ma semplicemente perché rimanere in mezzo a ghiaccio e neve per 5 ore consecutive, ad una temperatura di 8 gradi sotto zero ed il vento che soffiava imperterrito ed inesauribile, avrebbe messo alla prova anche un supereroe. C’è però una cosa che si deve tenere in considerazione sia in questo frangente che in tanti altri. Quando si lavora con professionalità, quando ti muovi in base ad una sequenza di fattori che hai precedentemente studiato, analizzato e condiviso, nessun sacrificio è tale da scoraggiarti nell’impresa. Portare quindi a casa un risultato pieno, è una logica conseguenza.

Tra le tracce presenti nell’album, quella che più mi ha colpito è stata la title-track, una canzone estremamente emozionale a mio avviso. È un azzardo dire che è, probabilmente, quella che meglio rappresenta il sound riacquisito?
JACOPO: La title-track è forse il mio brano preferito; ha un pathos fortissimo, per me, e contiene pure una discreta dose di azzardo, che non fa mai male. La sfida stava nel presentarsi con un brano in cui il coro viene pensato e utilizzato come un “cantante solista”, in quanto canta l’intero testo (prima strofa esclusa) e la l’intera melodia del brano, con la differenza che, invece di essere un cantante, sono 40 persone che cantano armonizzate a 4 voci. E’ una cosa che non era mai stata fatta prima dai Dark Lunacy e, così su due piedi, non mi viene in mente nemmeno un’altra band metal che abbia fatto un brano esattamente con questi termini. Da un certo punto di vista quindi non è in linea col passato della band, però, dall’altro, è quello che riprende perfettamente il pathos dei primi lavori in una nuova veste.

 

Ho notato poi che il vostro legame con la Russia è rimasto inalterato: dopo un’intera opera dedicata, “The Day of Victory” per l’appunto, in quest’ultimo album c’è un verso in russo nella canzone “Tide of my Heart”. Da dove nasce questo inscindibile legame?
MIKE: Ovviamente tra i due dischi vivono nello stesso mondo Lunacy ma parlano lingue diverse. The Day Of Victory è un album marziale nel quale l’incedere degli eventi marcia al passo della crudezza con la quale è stata scritta una delle pagine più cruente del nostro tempo (mi riferisco all’epopea Russa durante la seconda guerra mondiale). In The Rain After The Snow, lo scenario cambia totalmente e in questa intervista ne stiamo approfondendo l’essenza. Il richiamo alla Russia, in questo determinato momento storico della band si evince appunto in Tide of my Heart, ma la scelta di parlare marginalmente della mia passione per questo immenso, unico ed affascinante paese che è la Russia, è stata dettata appunto dalla diversa personalità dell’album. 

Io vi seguo e apprezzo già dai tempi di “Devoid”, arrivando anche, nel 2003, a fare una traversata con treno nottturno Napoli-Milano per la presentazione di “Forget.Me.Not”. Quanto e cosa è cambiato nei Dark Lunacy da quella band che stupì tutti col singolo “Dolls” a quella che è oggi?
MIKE: Grazie per aver ricordato quella sera. Fu un grande evento dai sapori che solo il mondo musicale di allora sapeva offrirti. Un mondo che tuttavia si apprestava a cambiare inesorabile, repentino e che oggi ci presenta scenari totalmente diversi. Mi riferisco in particolare alle sensazioni con la quale la musica veniva percepita e alla fedeltà verso un “regno” che il fan faceva proprio, disposto a seguire e coltivare attraverso gesti come – ad esempio – quello che hai appena raccontato nella tua domanda. Oggi è tutto diverso, forse meglio…ma non posso dirlo con certezza, così come non posso cavalcare le mie personali sensazioni figlie di emozioni provate in un passato dai colori differenti e che solo chi c’era allora può capire di cosa stiamo parlando. Quello che è certo è che il cambiamento ha spinto le band di allora ad affrontare la propria metamorfosi. Alcuni sono riusciti meglio di altri, altri hanno preferito uscire di scena ed altre band come ad esempio i Lunacy, hanno scelto il loro modo personale di traghettare la propria anima nel presente senza mai rinnegare il proprio passato e tutti quei piccoli, grandi momenti che ci hanno permesso di essere considerati  nel nostro piccolo una band unica nel suo genere.

E quanto e cosa è cambiato in Mike Lunacy, durante questi quasi 20 anni? Sempre che qualcosa sia cambiato.
MIKE: Vent’anni di carriera, uniti ad un altro bel pezzo di vita che si aggiunge ad essa, avrebbero bisogno di un libro per essere raccontati in modo esaustivo. Riassumendo in poche righe e rimanendo all’interno dell’ambito musicale, credo che il semplice fatto di aver preso parte ad una storia importante, di averlo fatto attraverso sei dischi ed essere sempre rimasto al mio posto mentre intorno tutti lasciavano la nave, sia l’esempio che meglio rappresenta il carattere di Mike Lunacy. Chiaramente, nel corso della vita, ripercorrendo a ritroso la tua strada e analizzando le tue scelte con il senno del poi, capirai che tante cose potevano essere fatte diversamente e meglio. D'altronde è a questo che serve la memoria: ad imparare dai propri errori cercando appunto che l’inevitabile cambiamento dettato dagli anni che passano, diventi un valore aggiunto e non un semplice sopravvivere agli eventi. Ciononostante è nel presente che si trova la vera sfida. È nel presente che puoi scegliere se assumerti la responsabilità di perseguire un’idea accettandone onori ed oneri, vittorie e sconfitte, oppure scegliere la via più breve, come ad esempio la resa. Io ho scelto ovviamente la strada più lunga, non me ne pento e per quanto mi riguarda, quando la storia scriverà il verdetto finale di questa lunga avventura, accetterò il suo giudizio nella consapevolezza di me stesso e non certo nell’impaccio di un rimpianto.

Abbastanza recentemente avete fatto qualche data con i Fleshgod Apocalypse, poi alcune date in supporto alla nuova uscita. Piani futuri per i nuovi live? Oltre recuperare le due purtroppo saltate… Anzi, Mike, colgo l’occasione per dirti che spero che tu abbia recuperato.
MIKE: Riguardo al mio recupero ti ringrazio per il tua domanda e rispondo dicendoti che tutto sta andando nel migliore dei modi. Quando la vita ci mette alla prova non siamo mai pronti. Ma dopo la caduta abbiamo solo un’alternativa alla fine. Quella di rialzarsi e riprendere il timone del proprio destino. Per l’estate abbiamo un paio di date in programma che ci prepareranno ad un autunno molto intenso, sia per recuperare le date che per causa mia abbiamo dovuto posticipare e disdire a priori, sia perché le nostre tre roccaforti, ovvero Russia, Messico e Giappone, ci stanno reclamando e gran voce e sarà nostra premura rispettare questi impegni nel migliore dei modi.

Siamo arrivati alla conclusione: lascio a voi le ultime parole ai nostri lettori. Io non posso che ringraziarvi per l’opportunità di quest’intervista. A presto… e sapete dove
MIKE: È stata un intervista intensa e coinvolgente. Grazie di cuore per l’attenzione che ci ha dedicato e che hai dedicato a The Rain After The Snow. Concludo salutando i vostri lettori con un abbraccio fraterno che li prenda tutti, invitandoli ad entrare nel nostro mondo.

Pubblicato in Interviste

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