I Vision of Atlantis: una band “nuova” ma con un passato alle spalle
Lunedì, 02 Novembre 2020 20:20 Pubblicato in Interviste
Michele Guaitoli dei Vision of Atlantis ci parla del loro nuovo live album “A Symphonic Journey to Remember” e di come la band si sia rinnovata negli ultimi anni.
AAM: “A Symphonic Journey To Remember” è il titolo del vostro nuovo live album/dvd: di questi tempi, vedere le immagini e ascoltare un concerto ci hanno trasmesso subito un senso di nostalgia per qualcosa che ci manca parecchio. Qual è il tuo punto di vista su questa nuova chiusura riguardante il settore? Qual è il tuo stato d'animo in questa situazione? Sei ottimista?
MG: Intanto grazie mille per dedicarci questo spazio, sai bene che è sempre un piacere per me poter approfondire i lavori e ad Allaroundmetal non mancate mai nel darmi questa possibilità!
Ti confesso che il mio ottimismo è un po’ scemato negli ultimi mesi. Quando la pandemia è iniziata ero convinto che l’avremmo superata nel giro di qualche mese, o al massimo un anno. Di recente perfino alcuni tour dei miei progetti che già erano stati ri-programmati sono stati nuovamente rimandati (il tour headliner dei Visions spostata a Settembre 2020 ora rimandato a Settembre 2021, il tour dei Temperance con Tarja riprogrammato per Marzo 2021 ora spostato a Marzo 2022, il tour di ERA è stato spostato a Dicembre 2021), di altri non si ha notizia (non ho idea di quando potremo recuperare il tour statunitense dei VoA in supporto ai Dragonforce) e più il tempo passa meno le cose sono chiare. Io comprendo assolutamente la difficoltà della situazione, mi rendo conto che l’unica maniera per combattere questo virus è il limitarne la diffusione…e soprattutto mi rendo conto che il problema non sta nella pericolosità del virus in quanto a mortalità, ma nella difficoltà di gestione del sistema sanitario. Tutto quello che già (soprattutto in autunno e inverno) saturava gli ospedali, oggi con il COVID è portato all’ennesima potenza e, non solo in Italia perché gli Italiani sono disorganizzati, in tutta Europa gli ospedali stanno collassando. Purtroppo bisogna tenere duro, fare ciò che è giusto fare per salvaguardare le vite altrui, indipendentemente dall’età dei “soggetti a rischio” e, soprattutto bisogna evitare di avere una situazione ospedaliera dove si rischia di rimanere fuori malgrado condizioni critiche per qualsiasi patologia, per mancanza di posti.
In tutto questo è innegabile che nel 2020, la musica, l’arte e il settore artistico in generale è stato assolutamente ferito e questo (o questi, se il 2021 non vedrà miglioramenti) sarà ricordato come l’anno in cui la musica è stata messa da parte.
Speriamo la questione si risolva, perché personalmente la musica è la mia vita e, per quanto stare a casa a comporre o in studio con i vari progetti che seguo siano attività che amo, il valore culturale di un concerto dal vivo e le emozioni che solo la musica dal vivo possono dare sono qualcosa di cui non si può fare a meno. O meglio, possiamo di certo sopravvivere senza, ma sarebbe un po’ come una vita senza viaggi o senza libri.
AAM: Il concerto è stato registrato nel 2019 in occasione del Bang Your Head Festival!!! e vede la partecipazione di una vera e propria orchestra, la Bohemian Symphony Orchestra Prague: uno show davvero impegnativo, che vi vede protagonisti con una performance eccezionale e con il vostro sound che ne esce sensibilmente arricchito. Com'è nata quest’idea?
MG: La collaborazione con la Bohemian Symphonic Orchestra Prague nasce addirittura prima del mio arrivo nei Visions of Atlantis. Il concerto avrebbe dovuto svolgersi al Masters of Rock del 2017 se non erro, poi saltato per vari motivi. La BSOP aveva già sviluppato gli arrangiamenti ed era già pronta e si era rimasti nell’ottica di recuperare la data prima possibile. Ovviamente la problematica per un’occasione del genere è organizzativa ed economica, perché spostare un'orchestra ha dei costi e organizzare uno show con un'orchestra su un palco di un festival ha delle grosse attenzioni organizzative da sviluppare. Lo scorso anno il Bang Your Head ha deciso di voler fare questo investimento, che si è rivelato vincente, e noi abbiamo colto la palla al balzo per renderlo uno showcase di quello che potrebbe essere un live dei Visions of Atlantis portato all’ennesima potenza. Poter suonare del Symphonic Metal con una componente organica sicuramente eleva la qualità artistica dell’esibizione.
AAM: Considerando che tu vivi in Italia e Clémentine in Francia, mentre il resto del gruppo è austriaco e che l'orchestra è della Repubblica Ceca, come avete preparato questo show?
MG: Con un atteggiamento il più professionale possibile, tanta preparazione personale ed una bella sessione intensiva di prove. I ragazzi della BSOP hanno provato gli arrangiamenti sui nostri brani indipendentemente, noi ci siamo preparati al meglio per evitare qualsiasi “variazione dal vivo” che a volte si fa su alcuni brani, rispettando totalmente le versioni studio e, quando ci siamo trovati (il giorno prima del Bang Your Head) in Repubblica Ceca nella sala prove dell’orchestra, portando ovviamente il necessario per inserire la nostra componente elettrica, ci siamo semplicemente occupati del mettere assieme le parti, perfezionare i dettagli e creare un feeling d’insieme. Ovviamente, per i più tecnici curiosi, noi come sempre abbiamo suonato a metronomo, mentre loro seguivano il direttore d’orchestra che a sua volta riceveva una traccia di click creata appositamente per l’occasione, specifica per le parti orchestrali.
AAM: La setlist va ovviamente a pescare la stragrande maggioranza dei brani dagli ultimi due album: immagino li sentiate più “vostri” per essere di fatto quelli che vi vedono protagonisti o si tratta di una scelta semplicemente stilistica, legata al fatto che si adattavano meglio ad essere eseguiti con l’orchestra?
MG: I Visions of Atlantis sono letteralmente rinati nel 2018 con “The Deep & the Dark”. Come penso saprai, la storia della band è stata decisamente travagliata e discontinua fino a prima di questo album “peculiare” nella carriera dei VoA. Tra cambi di line-up, problemi interni, pause e riprese, una band che è stata tra le prime band Symphonic Metal in Europa (e la prima in assoluto ad avere un vocalist maschile ed una vocalist femminile entrambi con vocalità pulite in formazione come membri fissi) si ritrova oggi in pratica a doversi considerare una band “nuova”, ma è una definizione che sta piuttosto bene a tutti. Abbiamo il vantaggio di avere uno storico ed un nome che non è nuovo nell’ambiente, alcuni brani che sono pezzi piuttosto di rilievo nel settore (“New Dawn”, “Lost”, “Seven Seas”) e la fortuna di poterci presentare come band fresca e rinata. Ora questa formazione è stabile e l’armonia interna è davvero stupenda. Per Clémentine, Dushi, Herbert e Thomas, il prossimo sarà il terzo album in studio insieme e la quinta release in quattro anni, per me, che comunque sono entrato in formazione subito dopo la release di “The Deep & The Dark” sarà la quarta (mi riferisco al Live album del 2018, “Wanderers”, questo DVD e il prossimo disco). Pensa che già così è una continuità che mai c’era stata prima e dal vivo grazie anche a questa situazione di sincronia e amicizia che si è creata, abbiamo sicuramente alzato l’asticella, oltre ad aver suonato veramente tantissimo. E’ inevitabile che la nostra identità è quella mostrata negli ultimi lavori, gli unici dove le nostre voci sono anche nelle versioni originali.
AAM: Collabori con vari gruppi e hai lavorato con varie partner: quali sono a tuo avviso i punti di forza in particolare di questa tua collaborazione con Clémentine?
MG: Di base mi approccio ad ogni realtà in cui suono con una mentalità differente, cercando di sviluppare un’identità che non rischi di mettere sullo stesso piano una band rispetto ad un’altra, e credo che questo sia un po’ il mio punto di forza. Non canto alla stessa maniera nei Visions, nei Temperance e negli ERA, così come non cantavo alla stessa maniera nei Kaledon e prima ancora negli Overtures. Questo stesso principio lo porto nel rapportarmi con altri vocalist. Se i Temperance sono una realtà piuttosto pirotecnica dove la forza vocale della band sta nell’esplosività e nella potenza sonora, i Visions sono rappresentati moltissimo dalla vocalità di Clemi. Lei è una ragazza assolutamente elegante, bilanciata e di stile e, incredibilmente, allo stesso tempo, è caratterialmente una persona con i piedi per terra, colta e generosa. Come tutti ha pregi e difetti, ci mancherebbe, ma di certo tra i difetti non si può menzionare l’essere altezzosa, tutt’altro. Questo è un po’ quello che sono i Visions of Atlantis, dove le nostre vocalità sono praticamente sempre delicate, morbide, curate ed alla ricerca di un suono elegante e dolce. Il tutto con una miscela tra la teatralità, la recitazione (nel suo caso a volte sfociando nel cantato lirico) e suoni più diretti ed assolutamente moderni. Direi che come descrizione forse è anche troppo specifica, ma rispecchia pienamente quello che è l’aspetto vocale dei VoA e l’intesa “professionale” tra me e Clementine.
AAM: Come ti sei trovato a cantare con un'orchestra alle tue spalle? Intendo dire che c'è il rischio tra amplificazione e pubblico di non avere una percezione definita dei suoni, invece le due voci soliste sono riuscite a incastrarsi alla perfezione con tutto il resto.
MG: Guarda, spero anche qui la risposta non sia troppo tecnica, ma oggi potendo lavorare con gli in-ear monitor, se si è seguiti bene e si hanno le competenze giuste, questi sono problemi che si possono dire “appartenenti al passato”. Io sono tranquillamente definibile “uno smanettone”, un “nerd” della tecnologia musicale. Sono così da quando ho iniziato a suonare, fondendo la mia passione per l’informatica con quella per la musica…e credo di aver influenzato praticamente tutte le band in cui ho suonato. Nel 2005-2006 con gli Overtures quando portavamo il nostro sistema di in-ear monitoring sul palco e dicevamo “non ci servono le spie, grazie”, ci guardavano come alieni. Pochi mesi dopo il mio ingresso nei Kaledon, così come nei Temperance, siamo passati all’in-ear monitoring indipendente anche lì, e nel frattempo questo sistema di gestione è diventato sempre più comune, tanto che oggi è quasi più difficile trovare una band che non fa utilizzo di un sistema di monitoraggio personale che il contrario. I Visions lavoravano così già prima del mio ingresso, per di più con degli strumenti praticamente identici a quelli che già usavo nei Temperance, quindi è stata una transizione assolutamente indolore. Avere questo tipo di strumenti, soprattutto con macchine professionali e di fascia alta come nel caso dei VoA o dei Temperance, significa poter ascoltare in cuffia quel che si vuole, livellando ogni componente a proprio piacimento per trovare il perfetto comfort, con tanto di effetti (riverberi, delay ecc ecc) personalizzati e pubblico (microfonato) ed orchestra (microfonata) controllabili separatamente. In poche parole durante il soundcheck, come per ogni altra data, ognuno di noi ha potuto agire personalmente sul proprio “mix” di ascolto, scegliendo a che livello tenere l’orchestra, a che livello tenere il metronomo, a che livello tenere il pubblico…personalmente la mia percezione era quella di ascoltare il DVD in anteprima (risate, ndR).
AAM: C'è qualche brano nel repertorio dei Vision of Atlantis che per te ha un significato particolare o che comunque ti fa particolarmente piacere cantare?
MG: Sicuramente tutti i brani estratti da “Wanderers” hanno un significato più forte per me, per il semplice fatto che a differenza dei lavori precedenti, li ho visti nascere, crescere, ci ho messo del mio in studio. Un po’ rimpiango la mancanza di “A life of our own” nel DVD (abbiamo iniziato a portarla dal vivo da settembre nel tour coi Freedom Call), che è uno dei pezzi che addirittura ho avuto l’onore di scrivere personalmente per i VoA. Sicuramente quello è uno dei pezzi che più mi fa piacere cantare perché è un po’ il simbolo del mio inserimento nel progetto, quella canzone che mi fa dire: “Ok, questa ora è anche la mia band”. Penso sia comprensibile il fatto che, entrando in una band con uno storico e già avviata, si vive sempre con il fiato del passato sul collo. Ci sarà sempre l’ombra del componente prima di te ad accompagnarti, tanto più quando tu fai parte della band da due anni, ma prima di te c’è una storia di diciotto anni. Eppure quando sali sul palco e canti determinati brani, tutto questo scompare e ti senti parte del progetto. Diciamo pure che quando scrivi della musica tua e riesci addirittura a portarla in una realtà di questo tipo, ha un significato diverso. Sono sicuro che se la stessa domanda la facessi a Clémentine, ti risponderebbe “Wanderers”, perché è uno dei brani che ha scritto e suonato lei. Sono simboli della nostra integrazione nella band.
AAM: I Vision of Atlantis sono una band che è sulle scene da parecchi anni e ha una discografia ormai sostanziosa alle spalle, ma di fatto è una band praticamente nuova questa che è stata costruita attorno al batterista Thomas Caser. Come spieghi tutti questi avvicendamenti in line-up?
MG: La storia non cambia praticamente mai. Thomas ci ha parlato spesso del passato, ovviamente dal suo punto di vista, e la sensazione sinceramente è che al di là del paese, al di là della nazionalità, le vicende nel settore musicale siano sempre le stesse. Spesso ci lamentiamo che in Italia le band sono poco professionali, o di questo o dell’altro aspetto, dicendo che “all’estero così non lo fanno”. Personalmente vivendo e rapportandomi con realtà estere mi rendo conto sempre di più che tutto il mondo è paese. Io stesso ho vissuto sulle mie spalle diversi cambi di line-up determinati da quelli che vengono presentati sempre come “divergenze musicali” o “diverse aspettative”. La verità è che per qualunque band, a qualunque livello, serve una base di passione incondizionata e di amore assoluto verso la musica, perché le soddisfazioni sono difficilissime da raggiungere, perché i soldi che girano nel mondo musicale sono pochissimi a meno che non si suoni in una formazione con un nome davvero altisonante e perché i sacrifici da fare sono tantissimi. Il tour in Sudamerica a inizio 2019 dei Visions è stata un’esperienza indimenticabile, ma abbiamo dormito qualcosa come tre/quattro ore a notte, senza guadagnare un euro perché non potevamo permetterci di portare il merchandise con noi e i ricavati erano appena sufficienti a coprire le spese di viaggio e di trasporto e tutti ci siamo ammalati, suonando chi con la febbre, chi con l’influenza intestinale, mangiando malissimo perché non avevamo tempo di fare dei pranzi o delle cene decenti. Non è esattamente la descrizione della vita da rockstar a cui la gente pensa, ma per noi era un sogno che diventava realtà. Di storie di questo tipo ce ne sono a migliaia e per raggiungere questi risultati bisogna passare per situazioni ancora più discutibili. Notti in van alternandosi alla guida e dormendo seduti per fare delle tournèe necessarie al percorso. Chilometraggi improbabili con magari sei ore in un furgone più il concerto, poche ore di sonno per poi ripartire. Sono la famosa “gavetta” per la quale bisogna passare, tutti tranne dei rarissimi casi di fortuna assoluta di cui non si può fare uno standard. Io ho perso progetti in cui credevo perché c’è stato chi si è stufato, chi a un certo punto voleva un ritorno economico che sarebbe potuto arrivare solo anni di lavoro dopo, chi ha deciso che non ne valeva la pena e chi mi dava del pazzo perché volevo continuare a fare cose così folli. Oggi non mi pento assolutamente delle mie decisioni e Thomas ti racconterebbe esattamente la stessa identica storia, non pentendosi minimamente delle sue scelte.
AAM: Avevate pubblicato un live album appena l'anno prima: come mai avete optato per una nuova pubblicazione di questo tipo così ravvicinata?
MG: In realtà il live album del 2018 è stato totalmente inaspettato, ma molto funzionale. Come sai “The Deep and the Dark” è stato registrato con Siegfried Samer alla voce maschile, che poi mi ha letteralmente “ceduto la staffetta” invitandomi a sostituirlo quando ha scelto di lasciare la band. Con Siegi il rapporto è tuttora ottimo, ho perfino preso parte ai cori del prossimo album dei suoi Dragony (dove suona anche Herbert, bassista dei Visions of Atlantis), quindi davvero tutta una grande famiglia. Un retroscena è che Siegfried voleva abbandonare i Visions già da un po’: lui è stato onestissimo e la band lo sapeva da tempo, ma non avevano trovato nessuna figura adatta. A poterlo fare credo, anche se non è mai stato detto esplicitamente, che sia lui che i VoA avrebbero preferito registrare “The Deep and the Dark” con il nuovo cantate maschile per far partire il nuovo ciclo in maniera più pulita, ma le leggi del mercato discografico hanno impedito alla band di aspettare, scelta che tra l’altro si è rivelata correttissima. Fortuna ha voluto che ci siamo trovati pochi mesi dopo, e che io abbia avuto la possibilità di esibirmi dal vivo già nel tour promozionale di “The Deep and the Dark”. Il live album, che non a caso si chiama “The Deep & The Dark live” è stato una sorta di “regalo” discografico nel quale vengo introdotto e nel quale diamo la possibilità di sentire la stragrande maggioranza di quei brani con l’attuale formazione. Il DVD con l’orchestra è tutt’altro prodotto visto che ha una componente video, una durata doppia (1,30 contro i 45 minuti di TD&TD), i brani di “Wanderers” ed uno spettacolo maturo e curato. Di certo non ci saranno altri dischi dal vivo per un bel po’.
AAM: Quali sono i vostri progetti per il futuro? So che avete già pianificato un tour per l'anno prossimo. È cambiato qualcosa in generale nei vostri piani a causa della pandemia?
MG: Come anticipato nella prima domanda, ora come ora è tutto un’incognita. Non abbiamo idea di quando potremo ripartire con la musica dal vivo purtroppo, possiamo solo sperare che avvenga il più presto possibile. Ad Aprile 2020 avremmo dovuto avere la seconda parte (quella più lunga e principale) del nostro primo tour europeo da headliner, che ora è stato spostato a Settembre 2021. Si farà? La speranza è che avvenga, ma le certezze non ci sono. Nel frattempo stiamo scrivendo un nuovo album, che per la prima volta ci vede coinvolti in una scrittura di gruppo. Io e Clémentine ci siamo trovati nel mio studio alla The Groove Factory di Udine già diverse volte ed abbiamo unito le nostre idee, sviluppato insieme oltre 7 brani e continueremo a lavorare in questa maniera finché non avremo il disco pronto. La speranza a questo punto è di farlo uscire prima del tour di Settembre 2021, in maniera da promuoverlo dal vivo e finalmente ripartire a gonfie vele. Posso dirti che su questo punto di vista siamo assolutamente soddisfatti ed entusiasti, credo che per tutti nei Visions of Atlantis un’intesa simile fosse necessaria, e soprattutto credo che per Thomas vedere una band coesa e che lavora d’insieme, dopo tanti anni di problematiche, sia davvero un nuovo stimolo. A questo punto dobbiamo solo sperare di fare un bel centro dal lato musicale, per fare un nuovo passo avanti. Noi ce la stiamo mettendo tutta!
I Mantra ci hanno davvero ben impressionati con il loro secondo disco, intitolato “Laniakea”. Il chitarrista Simon Saint-Georges ed il bassista Thomas Courtin dunque ci introducono alla scoperta di questo loro nuovo album in un’intervista dove emerge tutta la passione e l’entusiasmo di questo gruppo sicuramente al di fuori dai soliti schemi.
Il vostro album di debutto, “Into the light”, è stato pubblicato tre anni fa: sei soddisfatto del riscontro ottenuto con quel disco o ti aspettavi qualcosa in più?
È stato come un folle viaggio! Siamo stati molto soddisfatti di finire il nostro album, di aver trovato persone che hanno avuto fiducia in noi come la nostra etichetta Finisterian Dead End e di pubblicare il nostro lavoro. È un sogno diventato realtà e allo stesso tempo eravamo un po’ ansiosi circa quello che poteva essere il responso del pubblico, perché il nostro universo musicale è un po’ strano ed eravamo consapevoli che la produzione non era molto professionale. Ma quasi tutte le recensioni sono state positive e abbiamo fatto una serie di show in Francia che ci hanno permesso di viaggiare e di incontrare tantissima gente, cosicchè pur con i suoi difetti, “Into the light” è il nostro bambino, che poi è maturato in “Laniakea”! Questa esperienza ci ha permesso di avere davvero una chiara idea di come volevamo suonasse il nuovo album e di come volevamo lavorare alla produzione.
Riguardo al vostro nuovo album “Laniakea”, cosa potete dirci riguardo il songwriting? Ci sono state differenze rispetto a “Into the light”?
La nostra ricetta segreta è sempre la stessa: ci rintaniamo per una settimana o due in un luogo nascosto nel centro della Francia per vivere nel nostro universo e con i nostri ritmi e componiamo, scriviamo e registriamo insieme, come un gruppo, quasi come una tribù. Io penso che questa sia una delle cose più interessanti dell’album: avevamo un concetto che cercavamo di rendere costante nel corso dell’album e in ogni canzone. È molto importante per noi anche che le liriche si incastrino con la musica e con la storia, così scriviamo le parole insieme, come una band. Così è effettivamente una produzione collettiva ed è un’esperienza unica osservare quattro ragazzi che con cura scelgono le note e le parole per scrivere la storia di una tribù preistorica! La storia dietro la musica è ciò che incolla tutto insieme perché dà all’ascoltatore un contesto e gli permette di seguire facilmente la progressione dell’album. Pensiamo spesso che le liriche siano come delle “chiavi” per aprire il vero contenuto di una canzone o di un album: diamo alla nostra audience quanto basta per trovare la porta ma devono essere loro ad aprirla e ad attraversarla. In studio, abbiamo lavorato fianco a fianco con Artur Lauth al Brown Bear e lui sapeva immediatamente dove saremmo andati e abbiamo costruito il sound dell’album insieme con un quadro molto chiaro che avevamo in mente circa ciò che volevamo. È un tipo appassionato e di grande talento ed è anche davvero paziente e curioso, perciò era la scelta perfetta per una band come la nostra! Abbiamo trascorso molte settimane di scrittura sfrenata dell’album, prendendoci cura di ogni dettaglio e poi molte settimane in studio per rendere tutto perfetto. Dalla composizione al mixaggio, dall’artwork al mastering, volevamo che tutto fosse coerente ed interessante per la nostra audience.
Possiamo dire dunque che “Laniakea è un concept album? Su quali argomenti vertono le liriche?
“Laniakea” è il nome della galassia supercluster in cui tutti viviamo. In altre parole, è il nome che la nostra specie ha dato alla parte dell’universo a cui appartiene, che è una parte incredibilmente piccola dell’intero universo ma allo stesso tempo uno spazio molto più grande di quanto molti di noi potrebbero immaginare. Il nome “Laniakea” viene da una parola hawaiana, che significa “immenso orizzonte”. Nel 2014, quando venne per la prima volta scoperta, abbiamo iniziato a scrivere un concept sull’evoluzione del genere umano dalla preistoria e abbiamo pensato che sarebbe stato un bel nome per la valle dove avremmo ambientato la nostra storia, perché rende la prospettiva di un’idea di infinito nel tempo e nello spazio. “Laniakea” non è dunque un album su una galassia supercluster! È la storia di una tribù che, generazione dopo generazione, si sviluppa ed evolve sia tecnologicamente che emotivamente. È un viaggio in prima persona attraverso milioni di anni! Trattiamo argomenti come la scoperta del fuoco, l’invenzione di Dio sotto l’influenza di allucinogeni o la relazione che abbiamo, come specie, con la natura.
Come descrivereste il sound dei Mantra?
Il nostro sound ha molte radici in molte differenti culture e generi. Ma noi lavoriamo duramente per rendere queste radici indistinguibili l’una dall’altra dando loro la nostra struttura, il nostro proprio contesto. Usiamo le atmosfere sottili del prog rock, i riff sincopati e aggressivi del djent e i folli sacro-geometrici-schemi del math-rock! È una musica cruda, selvaggia, sciamanica, mistica. Lavoriamo molto anche sulla sensazione di spazio nella musica: vogliamo lasciare respirare la stanza per la musica, tra canzoni con impostazioni binaurali che puoi trovare nell’album, ma anche mentre suona la musica. È importante saper creare un posto perché le onde sonore nascano, vivano e muoiano.
Ci sono canzoni che amate suonare in modo particolare nei vostri concerti?
Ovviamente, quelle che suoniamo di più, sono quelle che ci piacciono di più! Le nostre canzoni sono davvero delle sfide da impostare nei nostri concerti, così ci vuole del tempo per essere davvero a nostro agio con il groove, le atmosfere e le struttura. Una volta entrati in questa zona, possiamo tutti rilassarci e lasciare che avvenga la magia. Perché è di questo che si tratta: nonostante la musica sia a volte un po’ violenta e destrutturata, il sound dei Mantra ha un contenuto meditativo! E come per lo stesso mantra, la trance diventa più profonda con la ripetizione, perché puoi seguire nella tua mente il percorso verso il più profondo stato di rilassamento. Quando suoniamo “Tribal Warming”, una delle nostre canzoni più vecchie, lasciamo davvero che i nostri corpi facciano prendere il sopravvento alla musica. È la sensazione più bella. È anche un piacere raggiungere il culmine nelle canzoni più lunghe, come l’outro di “Marcasite”, l’opener del nostro nuovo album, perché provi la sensazione di raggiungere la spiaggia dopo un viaggio durato una settimana sull’oceano! La tua testa prova le vertigini, non riesci più a camminare, ma ti senti vivo e sai che hai condotto la gente con te lungo il viaggio.
Apprezzo molto nella vostra musica la capacità di creare un certo mood e di trasmettere emozioni: qual è il vostro segreto per ottenere questo risultato?
Grazie mille, questo è proprio quello che cerchiamo di ottenere! Ci sono due differenti modi con cui cerchiamo di trasmettere emozioni: da una parte l’essere autentici e portare le nostre idee, dall’altra costruire un percorso molto preciso da seguire per l’ascoltatore. Sebbene le due cose possano sembrare contraddittorie, cerchiamo di essere davvero sinceri e scegliamo le note e le parole dal cuore piuttosto che dalla memoria e allo stesso tempo costruiamo la struttura delle canzoni con un’idea molto chiara di ciò che vogliamo che l’ascoltare provi in ogni momento! Siamo in uno stato di composizione libera e open-minded e usiamo la musica come uno strumento per esprimere ciò che vogliamo fare. Alcune volte abbiamo bisogno di esprimere idee che siano davvero potenti e travolgenti, per esempio quello che accade quando entri nello stato più profondo di meditazione o quando l’umanità come specie guadagna il potere di accendere un fuoco. Ecco perché alcune canzoni possiedono questi schemi heavy, quasi brutali, per ricreare queste sensazioni travolgenti. Come musicisti, amiamo realizzare atmosfere quiete che si evolvono lentamente per raggiungere un culmine. Questo è ciò che ci piace della musica: farla progredire attraverso la canzone da piccole isole di note al più potente tsunami del sound.
Quali band sono state importanti nel delineare il sound dei Mantra e cosa vi piace ascoltare adesso?
I Tool sono ovviamente una grande ispirazione per noi. Sembrano essere ad un altro livello di musicalità, lontano dalle regole che segue qualsiasi altra band. Proviamo a replicare quello stato di libertà nella musica, sia formando un nostro sound personale e i concetti, sia seguendo i nostri percorsi nella vita. Ascoltiamo anche i Gojira, sono un nostro tesoro nazionale e meritano di essere dove sono adesso. Hanno portato tanto al modern death metal, portando una nuova attitudine verso la musica e spingendola oltre in termini di tecnicismo, tono e musicalità. E sono anche dei tipi simpatici! Oltre a loro, amiamo band come Hypno5e, The Ocean e altre band più vecchie come Pink Floyd o The Doors, per esempio. Ascoltiamo tutti molta musica e spesso condividiamo nuovi suoni insieme: la scena è in costante evoluzione e amiamo trovare perle rare nascoste nel caos della musica metal!
Avete dei sogni come musicisti? Quali sono le più grandi aspirazioni per i Mantra?
La cosa migliore che ci potrebbe succedere è probabilmente quella di guadagnare riconoscimenti e di avere la possibilità di suonare la nostra musica ovunque! Saremmo onorati di essere invitati a festival come l’Hellfest o di aprire il palco per una di quelle band che amiamo! Lavoriamo duro per arrivare lì, proviamo a rendere la nostra musica unica e personale e credo che potrà accadere perché ancora molta gente valuta la creatività e l’onestà più dei ritorni economici.
I vostri progetti per il futuro?
Dopo essere stati in tour in Francia per alcuni anni, vogliamo portare ora il nostro universo all’estero e stiamo pianificando un tour europeo per il 2017! È un progetto molto eccitante per noi, davvero non vediamo l’ora! Sarà per noi qualcosa di nuovo suonare in altri paesi e speriamo di incontrare molte grandi band, grandi persone e vedere nuovi posti. Stiamo anche lavorando ad un nuovo spettacolo dal vivo per incorporare suoni dal nuovo album e ricreare le ruvide emozioni che abbiamo costruito nel disco. Sul palco, Pierre dimentica davvero chi è e diventa il personaggio e noi come band abbiamo bisogno di stabilire la scena perfetta perchè il rituale sciamanico diventi autentico e possibile per il pubblico. E se sei “ricettivo verso la medicina” (traduciamo alla lettera questa espressione, ndr), puoi andare davvero molto lontano! Questo è quello che faremo.
Bene, Simon e Thomas, grazie mille per quest’intervista.
Grazie mille a voi, è un piacere vedere che abbiamo un’audience in Italia! Abbiamo lavorato molto per pubblicare quest’album e ora speriamo davvero che quanta più gente possibile se ne innamori, proprio come abbiamo fatto noi. Speriamo di poter venire presto in Italia a suonare un po’ di immersive paleolithic metal! Saluti e grazie!
La forza della perseveranza: Intervista agli Easy Trigger
Sabato, 22 Ottobre 2016 19:00 Pubblicato in IntervisteGli Easy Trigger sono tornati con un nuovo disco, intitolato “Ways of perseverance”, così abbiamo sentito Caste, il chitarrista e fondatore della band, con il quale abbiamo approfondito alcuni aspetti legati al disco e alla storia recente del gruppo.
- Nel 2012 avete debuttato con il vostro primo album, “Bullshit”: come sono cambiate le cose per la band da allora?
Dall'uscita di “Bullshit” ad oggi diciamo che la band è cambiata nel senso dei "personaggi" che la compongono ma non negli intenti nè nella determinazione! Anzi, da allora è cambiato di più il mondo che la circonda, più che altro. I nuovi innesti hanno dato la possibilità alla band di pensare,lavorare e porsi in un contesto musicale più ampio!
- Come avete conosciuto il nuovo singer Nico? Ha partecipato alla stesura dei nuovi brani?
Nico lo abbiamo conosciuto prima di "Bullshit": era un candidato per entrare a far parte degli Easy Trigger ma a quel tempo eravamo un po’ tutti troppo "fuori" per capire le enormi potenzialità del personaggio. Penso sia solo quello il motivo che non sia con noi già dal primo album. Fortunatamente, ci siamo reincontrati più avanti. Il Nico ha scritto tutti i testi e ha dato man forte negli arrangiamenti.
- Come si sono svolte le registrazioni del vostro nuovo disco, “Ways of Perseverance”?
Le registrazioni di "Ways of Perseverance" sono state interessanti sia dal lato umano, perchè abbiamo registrato con un personaggio che nel campo è molto quotato e professionale, tale Sig. Maurizio "ICIO" Baggio, nel nuovo HATE STUDIO a Bassano del Grappa, sia tecnico, perché registrare in uno studio così grande ed equipaggiato, con le migliori tecnologie in campo di registrazione e produzione suoni, ci ha aiutati a capire ancor di più come “Ways Of Perseverance” concretizzasse il nuovo suono degli Easy Trigger.
- Come mai avete scelto questo titolo per il disco?
Il nome “Ways of Perseverance” lo abbiamo scelto per far capire alla gente che ci seguiva che la band è cambiata sì nei personaggi ma non nella voglia di perseguire quello che crediamo e ciò con riferimento sia al genere musicale che suoniamo che alla vita stessa della band, dato che venivamo da un periodo di cambiamenti noi stessi ma anche il music business in generale.
- In sede di recensione osservavo come forse questo disco sia per voi quasi un nuovo debutto o comunque possa rappresentare un’importante conferma per la band, visto che la line-up è cambiata così tanto rispetto al primo album, sei d’accordo?
Sì, esatto, l'intento è confermare la crescita della band e il fatto che, anche se gli elementi cambiano, lo spirito e la personalità che gli Easy Trigger portano sul palco dal 2009 sono gli stessi, siamo solo migliorati nella composizione e nei testi. Del resto, come si dice, è solo Rock'n' Roll!
- Quali sono le vostre principali influenze?Con quale musica siete cresciuti?
Siamo in quattro e fortunatamente abbiamo influenze comuni e non: Fabio "Pane" è più punk/hardcore/metal e ha militato anche in band del genere, vedi gli storici Raw Power; io e il Nico ascoltiamo più hard rock, metal, blues e R'n'R; anche il Vale è tra gli amanti dell’AOR e R'n'R dei bei tempi, con una passione singolare però per il funky degli anni '70 e dei musical in genere.
- Avete realizzato un videoclip per “One Way Out”: cosa ci puoi raccontare circa la sua realizzazione?
Il video di "One Way Out" è stato realizzato a Torino dove Nico stava frequentando l'università, tramite un suo (e adesso anche nostro) amico, Cesare Ambrogi, laureando in Regia abbiamo realizzato il nostro secondo video. Si sono mossi proprio come una squadra, hanno organizzato tutto loro, location, attori, trucco, ecc., noi abbiamo messo solo fiducia e volontà. Abbiamo realizzato tutto in due giorni e direi che è stato divertente come al solito e anche "compresso" per via dei tempi ma il risultato ci è piaciuto e rende l'idea di quel che siamo.
- Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Abbiamo di sicuro la promozione in Italia ed in Europa del nuovo disco: partiamo con tre date in apertura ai Niterain a Padova, Torino e Milano, un altro video e poi centro-sud Italia; stiamo organizzando e a breve confermeremo per il Regno Unito. Naturalmente c'è anche nuovo materiale in fase di composizione.