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Opinione scritta da Corrado Franceschini

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    17 Giugno, 2021
Ultimo aggiornamento: 17 Giugno, 2021
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Avevo ascoltato su Youtube “Limbo”, il primo singolo estratto dal nuovo album omonimo dei Varego, e mi ero ripromesso, qualora mi fosse capitata l’occasione, di recensire il full length. Ora che di singoli ne sono usciti tre, l’occasione è arrivata e queste sono le mie considerazioni. I Varego sono nati ad Arenzano (GE) nel 2009. La formazione è passata da cinque elementi presenti nel primo album “Tumultum” (2012) ai tre presenti nell’ultimo lavoro (2021). E’ impossibile bollare con una sola etichetta la musica presente nelle sette tracce di “Varego”. Per darvi una prima idea farò ricorso a delle immagini. Pensate al fango limaccioso di una palude che vi tira giù. Voi siete lì che provate a muovervi ma, nonostante qualche impercettibile miglioramento, venite trascinati inesorabilmente a fondo. Altra immagine? Pensate a una di quelle medicine che prescrivono i dottori per farvi sentire meglio. Fa effetto, sì, ma dopo siete destinati a ripiombare nel vostro triste angolino. Lo ammetto: ho un poco esagerato. Era per farvi capire che Sludge e Doom sono le parole d’ordine per decriptare il senso del disco. A dire il vero ci sono anche altri generi che fanno la loro comparsa come lo sperimentalismo Noise/Alternative degli Swans, i piccoli voli pindarici alla Voivod o, ancora, sprazzi di Progressive. Dite che è un’accozzaglia senza senso? Vi sbagliate di grosso. I tre dei Varego riescono a miscelare il tutto in maniera fruibile e abbastanza semplice per chi è abituato ad avere una visione ampia della musica. Si parte con “Tunnel” che, a mio avviso, risente troppo dell’approccio “live” usato in sala d’incisione per ciò che riguarda il controtempo della batteria. Hard e ipnotismo psichedelico riescono comunque a portarci al secondo brano; la già citata “Limbo”. Suoni massicci e dissonanze in stile Voivod sono le sue caratteristiche. Ascoltate “Death” e ditemi se, nel primo minuto, non vi vengono alla mente i Pink Floyd di “Time” arrangiati in una maniera più grezza. Le altre fasi possono essere ascritte al rock duro e psicotico. In “Needless” le contaminazioni fra generi sono veramente numerose. Il bello è che tutto combacia a meraviglia. Non ho le prove ma scommetto che in “One” ha giocato un grosso ruolo in fase produttiva Mattia Cominotto (Meganoidi, Tre Allegri Ragazzi Morti) che ha registrato, mixato e masterizzato il disco. Sono troppe le affinità con il suono della band di Davide Toffolo (TARM, appunto). La capacità dei Varego di portarci su terreni dall’humus diverso passa per “Wave”. In questo caso un ritmo pesante come un Mammoth coabita con aperture ampie e “sognanti”. La capacità camaleontica del trio esaurisce la sua corsa con “Raptus (Un Passo e Muori)”. Uno incipit di chitarra e voce che mi ha ricordato la fiction con Daniele Liotti “Un passo dal cielo” (che il titolo sia stato fonte d’ispirazione?) vira al duro fino a quando, finalmente, la chitarra di Alberto Pozzo trova modo di sfogare la propria rabbia e creatività. Se riuscite ad accettare il fatto che le anime (aggiungete anche quelle di Black Sabbath e Orange Goblin) che ho nominato riescano a vivere sotto lo stesso tetto, “Varego” fa al caso vostro.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    30 Mag, 2021
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Anno 1981; un mio amico torna nel Belpaese dopo una vacanza in Jugoslavia e porta con se una cassetta. Entrambi abbiamo sentito parlare dei Tygers of Pan Tang ma non abbiamo ancora ascoltato nulla e “Hellbound”, il loro secondo disco, è l’occasione giusta per conoscerli musicalmente. Quando mettiamo il supporto fisico nella piastra, dalle casse si sprigiona un mondo fatto di energia e chitarre taglienti: la gioventù sotto forma di musica. Sono passati quarant’anni da quel momento e la formazione di allora si è ridotta al solo chitarrista Rob Weir come membro originale. Quasi tutte le band nel 2020 sono state bloccate dalla pandemia e molte hanno deciso di ricorrere a delle raccolte per ovviare alla mancanza sul mercato e sui palchi di mezzo mondo. I Tygers of Pan Tang non hanno fatto eccezione e hanno deciso di dare alle stampe una compilation che va a pescare nella produzione che vede alla voce il nostro Jacopo Meille, ovvero quella che va da “Animal Instinct” del 2008 (Meille è presente dal 2004) ad oggi. “Majors & Minors” è costituito da quindici brani su C.D. e dieci su disco con pochissime cose per così dire inedite, ma offre comunque un buon spaccato della produzione delle tigri per chi, come me, aveva lasciato perdere il gruppo all’indomani del controverso “The Cage” (altra formazione, altra storia N.D.A.). Il gruppo è stato fra le formazioni seminali della N.W.O.B.H.M. e il suono di oggi, oltre a far riferimento a quello del passato, è anche supportato da una dose di energia in più. Heavy Metal con fortissimi richiami ai riff di chitarra dei Judas Priest: “Never Give In” e “Keeping Me Alive” su tutte, vengono affiancati a pezzi che hanno il sapore dei Megadeth di “Symphony of Destruction” (“The Devil You Know”). C’è spazio, stranamente, anche per il Glam rappresentato da “Glad Rags”. Se non vi ricorda “Unskinny Bop” dei Poison o siete dei neofiti o degli oltranzisti che non hanno mai ascoltato l’Hair Metal. l’Heavy tout court di “Damn You”, invece, va a toccare lidi appannaggio dei Saxon. Per ciò che riguarda i brani “inediti” del C.D. “Spoils of War” è proposta in versione orchestrale e gode di una sezione di corni e altri strumenti. Il pezzo è appena più etereo degli altri ma è in linea con la produzione più “recente”. “Plug Me In” (mai realizzata su C.D.), posta in chiusura, fa capire a chi ha un orecchio esperto, il perché è stata lasciata indietro in altre occasioni. Il ritmo Heavy N’Roll colpisce nel segno e il brano non è brutto ma ci sono alcune imprecisioni o, per meglio dire, delle indecisioni. Volete rivivere l’atmosfera dei vecchi tempi, quelli che per molti di noi che siamo oltre i cinquanta non torneranno più? Fate vostra questa raccolta e date una chance a Weir e compagni.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    21 Mag, 2021
Ultimo aggiornamento: 21 Mag, 2021
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Finalmente un gruppo, per la precisione un duo, con le idee chiare in testa. Tirate fuori i vostri giubbini in jeans pieni di toppe e andate indietro con la mente a quel metallaro ciondolante che si gettava nel pogo, era sballottato a destra e a manca, ed era felice come una Pasqua. I Tantivy dal Wisconsin, U.S.A., sono fautori di uno Speed/Thrash caciarone ma godibile. “Eyes In The Night” è un’ E.P. autoprodotto di venti minuti scarsi con cinque brani che scorrono piacevolmente a partire dall’opener “ I Am The Wolf”. Ritmo “Tupa Tupa” e voce alla James Hetfield sono delle caratteristiche che mi hanno riportato ai bei vecchi tempi quando fare headbanging su tempi serrati, era un obbligo. “Cut’em Loose” parte da una base Southern/Hard ma non fatevi trarre in inganno; i Tantivy tornano presto su lidi Speed e piazzano un classico ritornello memorizzabile, intervallato da fasi di chitarra libere e selvagge. In “Houndin’ You” sono di nuovo le chitarre a dettare legge intervenendo con scale veloci su un ritmo oltre il limite. In “Nowhere” quello che emerge è il suono potente di una batteria tellurica. Il pezzo è complesso e possiede parecchi cambi di tempo che lo rendono estremamente interessante. Le ottime idee del duo, in questo caso coadiuvato da Mason Kurth al basso, lasciano intendere che i Tantivy non scimmiottano un genere, bensì lo rinvigoriscono e lo rendono più potente. La conclusiva “ Daggers”, con le sue cadenze e i continui stop n’go, mi è parsa troppo confusa. In questo E.P. ci sono anche dei difetti. La voce di Adam Geurink, che nel primo brano aveva fatto faville, in altri frangenti è meno eclatante: o si punta decisamente sul grezzo, o si canta in maniera più consona e intonata. Anche la batteria di Jon Zimick ha bisogno di una regolata. A volte sembra che il drummer debba strafare a tutti i costi quando, invece, potrebbe tenere il tempo in maniera più tranquilla ed efficace. Questi fattori non permettono a “Eyes In The Night” di arrivare ad un voto più alto del 3,5/5 ed è un peccato.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    13 Mag, 2021
Ultimo aggiornamento: 13 Mag, 2021
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Talvolta non è una cosa facile recensire il disco di una band esordiente e nel caso degli Junkwolvz, lo è stato ancor di meno. Il gruppo di Atene, nato nel 2017, dopo un primo scioglimento si è riformato nel 2019 e ha cominciato a fare sul serio. Il leader del terzetto, Panos, ha lavorato in pieno lockdown sulle canzoni che erano già pronte, e nel luglio 2020 è uscito il demo “Still Going Down”. La band mostra una certa attitudine ed è in grado di sprigionare energia ma il fattore dell’autoproduzione in uno studio casalingo, unito alla presenza di due cover su cinque canzoni presenti, non gioca a favore degli ellenici. Da un lato abbiamo delle buone idee unite a una musica che, personalmente, ho situato tra l’Heavy Metal “atletico” dei Raven, la N.W.O.B.H.M. per certi passaggi grezzi della produzione, e i nostrani Fingernails. La voce di Panos rispetto alle chitarre è bassa mentre, a tratti, sono la batteria e il basso a risultare sotto tono. Va da se che questi fattori rendono difficile l’ascolto. Peccato perché i riffs che scaturiscono dalle chitarre, farebbero felice qualsiasi Thrasher degno di tale nome. La sintesi di ciò che ho detto è racchiusa nella seconda traccia dal titolo “All The Tears”. Thrash, cambi, soli, il tutto bisognoso di una voce più incisiva e in evidenza, e di una migliore coordinazione. Se dovessi puntare su un pezzo giocherei il mio malloppo sull’omonima “Still Going Down”; pensate se fosse uscita dal primo album degli Exodus che successo avrebbe fatto. Che dire delle due covers? “The Snake” (rifacimento del brano di Al Wilson n.d.a.) ha un piglio decisamente più Rock, quasi Street, rispetto all’originale che toccava le corde del Soul. “Brown Sugar” (Rolling Stones) ha un suono aggressivo e un’esecuzione che potrebbe proporre una qualsiasi band underground in sala prove. Sono sicuro che se gli Junkwolvz avessero aspettato qualche mese a far uscire il loro demo: poco dopo il rilascio è stato aggiunto alla line up un secondo chitarrista, il tutto avrebbe assunto una piega diversa e avrebbero meritato la sufficienza. Auguro al gruppo di trovare uno studio di registrazione che possa valorizzare il lavoro svolto in fase compositiva. Solo così i quattro potranno diventare realmente competitivi.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    05 Mag, 2021
Ultimo aggiornamento: 07 Mag, 2021
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Mi scuso con Freddie Wolf, cantante dei Princess, per il ritardo con il quale arriva questa recensione. I Princess sono una band nata a Roma nel 1994 e scioltasi nel 2003. Con la reunion del 2016 le cose hanno preso una piega diversa e il gruppo ha cominciato a produrre musica con l’intenzione di farla uscire in formato fisico. Sino ad ora sono usciti tre lavori che ho avuto l’opportunità di recensire per Allaroundmetal. il primo omonimo del 2017 l’avevo valutato 3,5/5. Il secondo dal titolo “Lovely Heaven Crazy Band”, aveva ricevuto un punteggio di 3/5 e ora è la volta di “The Dark Side of God” uscito nel 2020 per Swan Edition. Con questo terzo lavoro il gruppo segna un passo in avanti dal punto di vista della produzione; ciò ha permesso alle canzoni di avere una maggior fluidità e ha consentito agli strumenti e alla voce di emergere nella giusta maniera. La barra del timone si mantiene sul versante dell’Hard Rock ma, come accadeva nei dischi precedenti, non mancano incursioni nei mari del Folk e dell’Epic Metal. Gli undici pezzi hanno un tratto d’unione così forte che sembra di essere all’ascolto di un concept album. Questa sensazione mi ha riportato alla mente quel capolavoro che è “Streets (A Rock Opera) ” dei Savatage. Ovviamente non siamo di fronte alla qualità e alla perizia tecnica che i fratelli Oliva hanno dispensato con quell’album ma come termine di paragone può andare bene. Se volete entrare nell’ottica di “The Dark Side of God” lo potete fare andando a cercare il video del singolo uscito, l’unico per ora, dal titolo “The Night of Evil (Halloween) ”. Il clip di questo brano (il primo del C.D. n.d.a.) vede la figura di Michael Myers: il personaggio protagonista di Halloween, inseguire una ragazza. Freddie Wolf somiglia moltissimo a Sammi Curr (vedi il film Trick or Treat n.d.a.) e la sua voce ha come contraltare quella di Tim “ Ripper” Owens; ex Judas Priest. Non vi svelo il finale a sorpresa del video; personalmente l’ho trovato bello e originale. Se nel primo pezzo avevamo preso confidenza con l’Hard Rock roccioso e tambureggiante con “Melancholy of The Devil” troviamo una leggera deviazione verso il suono duro, ma melodico, americano. In “Dreamless” le tastiere di Mauro Manzoni prendono il potere e svolgono un ruolo predominante. Vi ho parlato dei Savatage e “Hiroschima (The City That Cried Blood) ” è la canzone giusta per riflettere su ciò che ho scritto poche righe sopra. “Syd (The Dark Side of a Mind) ” suppongo sia un omaggio al mondo di Syd Barret; d’altra parte i Princess, nel C.D. precedente avevano tributato Freddie Mercury quindi… Il pezzo, dall’incedere lento e/o cadenzato, vede un buon lavoro alle chitarre da parte di Max Brodolini. “The Cross I’ ll Bring No More”procede sulla strada del Rock duro suggellato da un solo di chitarra epico e pomposo. “Argos”semina nel terreno germogli di Folk e Flamenco. La lenta “Never Ever” non mi ha esaltato più di tanto anche se gode di buone armonizzazioni della voce. Freddie e i suoi musicisti si rifanno alla grande nella successiva “Only One God”. Il pezzo, pur non essendo eccessivamente complicato, mi ha convinto grazie al suo andamento vagamente epico e “dondolante” e ai suoi cori ben strutturati, a dimostrazione del fatto che il Rock può elargire calma e far ritrovare una tranquillità dell’anima. Piano e tastiere, assieme a delle belle fasi orchestrali, tornano alla ribalta in “ Vlad III – Voievod of Christ”. Quasi a volere chiudere il cerchio di una storia iniziata in maniera alquanto inquieta, I Princess ci lasciano con una nota di speranza affidata alla serafica “The Silence of God”. Non sarà facile per Freddie e soci fare breccia in un panorama affollato e frazionato come quello dell’Hard & Heavy italiano ma, se fossi in voi, una chance gliela darei; siamo pur sempre di fronte a un “signore” che suona musica da decenni e, per questo, merita rispetto.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    22 Aprile, 2021
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Con il passare del tempo ho maturato la convinzione che, per conoscere a fondo una città particolare come Napoli, bisogna affidarsi a chi vi è nato e cresciuto. Per favorire il percorso esplorativo è altrettanto utile seguire la cultura che scaturisce da testi e musiche. E’ così che, dopo avere ascoltato da adolescente Edoardo Bennato, Teresa De Sio e Pino Daniele, a inizio 2021 mi sono imbattuto nei Nebra. Sgombriamo il campo da ogni dubbio: il quartetto napoletano, in attività dal 2006, non propone un genere cantautorale nel senso stretto del termine e neanche una musica neomelodica. Quello che ascolterete in “Cuore Colpevole”, C.D. uscito per L.M. Records nel 2018 è un misto di Rock italiano: per brevi tratti mi ha ricordato i Marlene Kuntz, contaminato fortemente con l’Hard Rock e, in maniera più leggera, con il Progressive. Il perché del mio lungo preambolo è spiegato dal fatto che i testi: spesso in italiano, altre volte in napoletano e altre ancora in inglese, tendono a trasportare l’ascoltatore in un mondo che è situato tra il reale, il fantastico, lo storico e il “verace”. Un mondo dove la città partenopea ha un ruolo preponderante e, per certi versi, primigenio. Per avere riprova di ciò che ho detto basta addentrarsi nel primo pezzo dal titolo “Janare”. Pur non toccando l’ossianicità dei Black Sabbath o dei primi Death SS la litania cantata da Aurora Pelosi, corroborata da una musica Hard, ci porta a spasso in un bosco di Benevento, paese delle streghe, dove si svolge un nero Sabba. Se siete scettici a riguardo dell’uso della lingua italiana associata alla metrica delle canzoni, ascoltate “Il Drago Di Wavel” e vi ricrederete. Il Surf Punk “divertente” che scaturisce dai solchi è impreziosito dal suono della chitarra di Gianni Gargiulo che contribuisce a donare al pezzo una buona energia. “Fuoco al Fuoco” possiede riffs ossessivi e marcati, un bel cambio, voci armonizzate e un solo libero. Per dimostrare l’attaccamento, ma anche la denuncia di certe pratiche che affliggono la Campania, i Nebra “legano” il testo con il triste e nocivo fenomeno della Terra dei fuochi. In “Cuore Colpevole (la Barchetta Fantasma) ” l’atmosfera iniziale è rarefatta grazie al ritmo Flamenco/Gitano. La successiva fase votata all’indurimento l’avrei resa più “corposa” e marcata a livello di suono mentre reputo buoni la trasformazione al Rock duro e il soo scatenato. “‘O Munaciello 37” è uno dei pezzi che preferisco. Il dispettoso spiritello della tradizione napoletana viene ben rappresentato da un testo ad Hoc e da un riff di chitarra a spirale dal taglio Progressive. Il ritmo a scatti e la cadenza fanno si che la canzone diventi una sorta di tormentone che si piazzerà nella vostra testa per giorni e giorni. “Parthenope” affonda le sue radici nella storia e la racconta, oltre che nel testo, con una musica improntata alla lentezza, alla cadenza e alla meloodia. “Jack o’ Lantern”, cantata in inglese, è ascrivibile allo stile del compianto Ronnie James Dio. Naturalmente la voce di Aurora non è simile a quella del piccolo folletto ma si destreggia bene lo stesso. “Accort’ a Serpe” è un pezzo dal taglio Rock italiano che mi ricorda fortemente un altro motivo… Ma non ricordo quale. Con ”The Glamis Castle’s Ghost” torna l’idioma inglese. In questo caso la commistione fra più stili, e ritmi, viene espressa da un quartetto che ci lascia prima basiti per una certa leggerezza e calma e che poi si lancia in una fase fra il Prog Rock e la Tarantella: lo so; sembra impossibile, ma questa è stata la mia sensazione. La voce di Aurora, per il modus operandi nei vocalizzi, mi ha riportato alla mente un vecchio pezzo di quell’eclettica artista che è stata Nina Hagen (il pezzo è “African reggae” n.d.a.). Avrei agito sui cursori del mixer aumentando l’eco: la similitudine tra le due voci sarebbe stata veramente interessante da comparare. “Vico Pensiero” poggia le fondamenta su un Rock di buona fattura dove gli strumenti sono a loro agio. Fra fraseggi lenti e veloci, In un passaggio, mi è venuto alla mente il modo di scrivere di Pino Daniele. “Friends”, a dispetto del titolo, ha un testo intrigante e per certi versi “misterioso” per chi non è abituato al colorito linguaggio campano. Un giro Funk lascia lo spazio al Rock duro e, anche in questo caso, lo sfogo di chitarra rabbiosa risulta vincente. A chiudere il tutto ci pensa il remix di “Jack O’ Lantern” effettuato dall’artista, scultrice e D.J. Cristabel Christo. A mio avviso il lavoro svolto non aggiunge molto se non un’anima più eterea e “cosmica”, ad un brano che era buono già in partenza ma, si sa, l’arte non ha confini e la voglia di sperimentare è sacrosanta. A dire il Vero “Jack O’ Lantern” non è l’ultimo pezzo del C.D. visto che i Nebra ci salutano con una ghost track/divertissement dove si sente la band che prova più e più volte un brano smettendo e riattaccando. Lo vedo come un modo per dire che i Nebra sono così: veraci come il cuore di Napoli e pronti a stupirci fregandosene degli stereotipi o della perfezione a tutti i costi. Nel frattempo la band ha sostituito il bassista Lucio D’arrigo con Francesco Fiordellisi e sta lavorando al terzo full lenght. Io la terrò d’occhio aspettando l’ora di riassaporare il profumo di zolfo e caffè che arriverà dalla zona dei Campi Flegrei.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    09 Aprile, 2021
Ultimo aggiornamento: 09 Aprile, 2021
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Mi scuso con Daniele Liverani per il fortissimo ritardo con il quale arriva questa recensione. Il nome di Daniele Liverani non si trova quasi mai nei blog dedicati all’Heavy Metal italiano eppure, il contributo dato da questo polistrumentista alla nostra scena musicale è enorme. Possiamo trovare la chitarra o le tastiere del musicista in gruppi come Empty Tremor, Twinspirits , nella trilogia da lui composta “Genius – A Rock Opera” e in altre realtà oltre che, ovviamente, nei suoi dischi da solista. Non è mai facile approcciarsi a un lavoro di Daniele e nel caso di “Worlds’s Apart” lo è ancora meno. In primo luogo bisogna apprezzare il suono e il tipo di composizioni dei Guitar Heroes in più, questa volta, bisogna anche essere dei grandi appassionati di musica classica. I primi tre pezzi non aggiungono molto a ciò che già conosciamo dal punto di vista compositivo e tecnico di Daniele. Riffs di chitarra, divagazioni pirotecniche sul tema portante, chitarre sommate le une alle altre, il tutto assemblato con un’operazione di missaggio certosina. L’unica cosa che “stona” all'orecchio è il suono della batteria di Simon Ciccotti che appare secco e legnoso: un “neo” che si nota anche negli altri pezzi. Probabilmente il lavoro da studio ha richiesto alcuni passaggi attraverso programmi del computer come si fa al giorno d’oggi: soprattutto quando si lavora a distanza. Con il quarto pezzo (“A Kingdom Without Thorns”) le cose cambiano in maniera radicale. Dopo un’introduzione maestosa entrano in scena strumenti come oboe, viola e violino, suonati da musicisti in carne e ossa, che danno vita a una piece di musica classica divisa in diversi movimenti che vanno dall’adagio all’andante con brio. Come se non bastasse, nell’arco della durata di otto minuti, compaiono un flauto tenue, un piano a cascata e una sezione di corni. Un vero e proprio colpo gobbo per chi si aspettava uno sviluppo orientato al Metal. Con “Scratchy” Torna la tipica verve incentrata su più chitarre. Dopo una fase iniziale volta a creare pathos veniamo catapultati in un mondo dove riffs legati al brano precedente, si integrano con suoni di chitarre che contrappuntano ogni sorta di movimento. “Abnormal” vede come ospite il chitarrista Alberto Bassi. Il suo strumento e quello di Daniele vanno d’amore e d’accordo dimostrando un’intesa perfetta. Gli otto minuti e quarantadue secondi di “Magic Encounters” calcano di nuovo e in maniera pesante, il terreno della musica classica. Nella fase più onirica si è palesata davanti a me l’immagine di due unicorni in tutta la loro bellezza e magnificenza, che s’incontrano in una foresta incantata. Esiste però una fase più malinconica e introspettiva. “Confortably” ha il suo punto di forza nella chitarra tesa ad evocare uno stile Barocco. “Meatball Struggle” mostra chiaramente il dualismo e i diversi stili di Liverani e dell’ospite Jordan Steel. In “Everything Ends” ad essere ospite è Edoardo Taddei. Inutile dire che lo strapotere dei due strumenti fa passare in secondo piano tutto il resto. Con “Love Rose” si tira di nuovo il fiato grazie alla viola che suggella l’atmosfera ispirata nuovamente al Barocco. Nell’ultimo pezzo dal titolo “A Walk With The Giants” oboe e corni tornano ad allietarci e ci accompagnano alla fine di un viaggio, quello di “World’s Apart”, che consiglio di percorrere solo agli amanti degli Shredders, di Joe Satriani, Di Grieg: il compositore del celebre “Il Mattino” e di Mussorgsky. Se vi mancano questi “requisiti” passate oltre oppure, sfidate la sorte inoltrandovi in qualcosa di difficile ma suggestivo.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    16 Marzo, 2021
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Mi scuso con i The Strikes per l’enorme ritardo con il quale arriva questa recensione. La band calabrese si è formata nel 2016 e nel 2018 ha rilasciato il primo singolo “Out of Here”. Alla fine dello stesso anno è pronto l’E.P. autoprodotto dal titolo “The Capital” ma il lavoro vedrà ufficialmente la luce solo nel maggio 2019. Registrati con l’aiuto di Mattia Migaldi, i sei brani di “The Capital” hanno un range che varia dall’Hard Rock alla N.W.O.B.H.M. fino a toccare, con le debite proporzioni di tecnica, alcuni fraseggi delle chitarre tipici della coppia Smith/ Murray. Il disco è fortemente derivativo e la band ce la mette tutta per renderlo accattivante ma ci riesce solo in parte. Non sto parlando tanto dello stile o dell’originalità: quelli, per essere di fronte a un debutto, vanno bene così. Sto parlando dell’autoproduzione in quanto si sente che il tutto è stato fatto in economia e, forse, con troppa fretta lasciando parecchi errori per ciò che riguarda i volumi delle chitarre e l’assemblaggio. Dell’omonima “The Capital” salvo il secondo solo di chitarra che è bello e ruvido mentre il resto è da rivedere e risistemare. “War Criminal” è un Rock duro che annovera parecchi cambi. Il pezzo in se non è male ma i volumi delle chitarre nella seconda fase avevano bisogno di un migliore bilanciamento. “Iron Shield” si snoda attraverso ritmi trascinati e accelerazioni. Anche in questo caso, fra stacchi e riprese, c’era bisogno di una maggiore accuratezza tuttavia, nella fase che ricorda gli Iron Maiden, si sente la buona volontà del combo. Con “Nebula” entriamo in pieno territorio Doom. Lo spettro dei Black Sabbath più oscuri si palesa e ci accompagna per un lungo tratto di strada. Bella la partenza scatenata che spiazza l’ascoltatore. “Run Over Time” è una tipica “cavalcata” con un inaspettato break rallentato e un successivo potenziamento in crescendo. Il sesto e ultimo pezzo, “Out of Here”, ricorda molto da vicino l’Hard Rock degli anni settanta e mostra una buona intelaiatura. Un’ultima nota positiva la voglio dedicare ai cori. Le due voci di Andrea Dieni e Chiara Cerri, quando interagiscono, mostrano una buona intesa; questo potrebbe essere un buono spunto da usare nell’eventuale prossimo disco. E’ difficile dare un voto a “The Capital” dato che precisione, cura dei suoni e accuratezza nel mix e mastering, al giorno d’oggi, sono basilari per una buona riuscita e si ottengono abbastanza facilmente. Sono convinto che i The Strikes possano fare di più e meglio.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    06 Marzo, 2021
Top 10 opinionisti  -  

Ecco, siamo alle solite! Ogni volta che esce una sorta di antologia o di “Best of”, chiamatelo come volete, la domanda che mi pongo è sempre la stessa: “Devo giudicare la band e la proposta musicale, già nota, o la confezione e l’interesse per la stessa?” Sapete tutti chi sono i Magnum e cosa rappresentano all’interno della scena Hard Rock/A.O.R. mondiale. “Dance Of The Black Tattoo” è composto da quattordici pezzi che, se siete dei fans della band, avete già ascoltato in varie versioni. Dove sta la novità? Nel fatto che sono stati tutti rimasterizzati e attualizzati nel suono che è stato reso più carico e avvolgente. Inoltre sono usciti come radio edit, pezzi dal vivo pescati dall’enorme archivio in possesso dei Magnum o come bonus tracks. La qualità, inutile dirlo, è alta e la voce di Bob Catley, se pur “rotta” dall’età, dal vivo regge ancora. Le tastiere di Rick Benton ammantano il tutto e aiutano non poco a riempire il tutto ma lo fanno con sapienza e senza sovrastare troppo i compagni d’avventura. Difficile tirar fuori dal cilindro dei brani che svettano su altri: ce n’è per tutti i gusti a partire dall’iniziale “Black Skies” che ci porta in un mondo fatato fatto di Rock e melodia. Il Progressive e il Pomp Rock sono ben rappresentati da “On Christmas Day” il cui testo si schiera contro la guerra. Ancora più Progressive è la successiva “Born To Be King” (disponibile solo su vinile o in digital download n.d.a.) dall’andamento medio e dalle tastiere che contrappuntano la melodia. A volte, come nel caso dell’omonima “Phantom of Paradise Circus”, si capisce perché alcuni pezzi finiscono per essere bonus tracks: in questo caso di “Sacred Blood”. Clarkin si è detto felice di aver potuto donare maggior visibilità al pezzo che, per inciso, non è affatto male. Se è stato “scartato” suppongo sia stato a causa della voce veramente “fioca” rispetto agli standard qualitativi di Catley, e per un risibile tocco della batteria fuori tempo: roba da puristi dell’ascolto. “Show Me Your Hands” era, e rimane, un piccolo gioiello impreziosito da sublimi tocchi di tastiera. Ho deciso! Do a “Dance Of The Black Tattoo” un voto alto. I Magnum se lo meritano per ciò che riescono a comunicare all’ascoltatore attraverso brani che, come detto, sono di classe e di qualità. Siete abbastanza grandi da poter decidere da soli se vale la pena acquistare questo disco, magari nella versione doppio L.P. color magenta, oppure aspettare il prossimo lavoro da studio con pezzi inediti.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    01 Marzo, 2021
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Sono passati all’incirca trentun anni da quando la stampa inglese, Kerrang in primis, additava The Almighty come la “next big sensation” musicale. Gli Almighty erano una band proveniente da Glasgow in Scozia e non dall’Inghilterra, ma questo è ininfluente ai fini della recensione . Ciò che conta è che Un disco come “Blood, Fire & Love” (1989), trainato da brani quali “Wild & Wonderful”, “Destroyed” e “Full Lovin’ Machine” era foriero di bordate Hard and Heavy veementi e grezze. Il suo successore: “Soul Destruction” del 1991, rimarcava le caratteristiche salienti della band e ne faceva salire le quotazioni mentre “Powertrippin’” (1993) vedeva The Almighty raggiungere un pieno consenso grazie anche a un tour che li vedeva di spalla agli Iron Maiden. Dopo questi fasti la band virò decisamente verso un suono più duro e inviso a molti ascoltatori e, perlomeno in Italia, l’interesse verso Ricky e soci scemò velocemente. In realtà Ricky Warwick non ha mai smesso di cavalcare le strade dell’Hard Rock facendo degli album da solista e entrando nei Black Star Riders: una nuova incarnazione dei Thin Lizzy dati i musicisti coinvolti. Febbraio 2021 vede il cantante/chitarrista tornare in veste solista con “When Life Was Hard And Fast”. Il disco è uscito in vari formati e, in caso di acquisto, sarebbe bene comprare la versione doppia con un secondo C.D. fatto di cover (“Stairwell Troubadour”). I files che mi sono arrivati contenevano solo il disco singolo ed è su di esso che si basa la recensione. Gli undici brani di “When Life Was Hard And Fast”, per stessa ammissione del gallese, sono stati registrati in modalità più aderente possibile al suono dal vivo. Devo dire che a parte una batteria abbastanza monotematica suonata da Xavier Muriel (ex Buckcherry) il resto del disco è abbastanza godibile. Certo: non tutto è soddisfacente; come si fa a registrare una canzone (“Clown Of Misery”) cantandola e suonandola mentre si è al telefono con Keith Nelson, produttore del lavoro, e pubblicarla così com’è? Il resto dei pezzi è rappresentato da un’alternanza di Hard Rock, brani semimelodici e accelerazioni marcate. Se volete capire quanto erano avanti alcuni “scomodi” personaggi ascoltate per prima la cover di “Gunslinger”: l’originale uscita nel 1977 era di Willy Deville. Vi troverete di fronte a un Rock sporco, tirato, ed efficace come pochi. Se volete pescare qualcosa di veloce e “cazzuto” affidatevi a “Never Corner a Rat” il cui testo è mutuato da una conversazione avuta da Ricky con un Marine statunitense. Molto belle anche “Still Alive” che adotta un ritmo alla “Rebel Yell” (Billy Idol) mischiandolo con i tratti cari a The Almighty e “You’re my Rock n’ Roll con uno stile che richiama i Ramones più grezzi e diretti. Tra i tanti ospiti presenti un valido contributo lo offre la chitarra di Andy Taylor (Duran Duran e Power Station) presente nella dura e pura “I’d Rather be Hit” dedicata alla presa in giro perpetrata dalla politica nei confronti dei cittadini. Warwick aveva detto di volersi avvicinare allo stile di Tom Petty (and the Heartbreakers) e lo ha fatto in parte con “I Don’t Feel at Home”. Ho detto in parte perché i più attenti fra voi troveranno tra i solchi anche tracce di Bruce Springsteen e del Bon Jovy di “New Jersey”. “When Life Was Hard and Fast” è un disco sincero e questo è il suo valore intrinseco.

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