A+ A A-

Opinione scritta da Corrado Franceschini

349 risultati - visualizzati 61 - 70 « 1 ... 4 5 6 7 8 9 ... 10 35 »
 
releases
 
voto 
 
4.0
Opinione inserita da Corrado Franceschini    30 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 30 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti  -  

I Wraith, combo nato nel 2016 nell’Indiana (U.S.A.), sembra che provengano direttamente dall’inizio degli anni ottanta; periodo nel quale Speed e Thrash Metal lanciavano i loro primi vagiti. La formazione non ha subito cambi ma, nel 2020, è passata da tre a quattro elementi con l’inserimento del nuovo chitarrista solista Jason Schulz. Su quali binari si muovo i Wraith è presto detto: hanno una forte componente che riporta direttamente ai primi due album dei Metallica. Vi basti sapere che “Mistress Of The Void” è la sorella illegittima di “Metal Miltia” e che “Cloaked In Black”, nella seconda parte, sia strettamente imparentata con il sound di James Hetfield & Co. Dopo avere effettuato la trasvolata transoceanica che ci ha portati virtualmente e musicalmente nella Bay Area, prendiamo il biglietto di ritorno per l’Europa che, nei gloriosi anni ottanta, non stette di certo alla finestra a guardare e partorì band come Venom e Bulldozer. Queste due entità sono ben riconoscibili e presenti in canzoni come “Dominator”, pezzo dove le chitarre di Matt Sokol e Schulz sono divise equamente negli altoparlanti e, pertanto, riconoscibili (una cosa che mi fa sempre piacere ascoltare) e “Bite Back”. Se la violenza musicale è il vostro pane quotidiano, l’anthemica e velocissima “Gate Master” e “Victims Of The Sword”, vi sfameranno. Se invece avete voglia di sfogarvi nel circle pit, troverete nella cadenza alla fine di “Disgusting” un degno dessert. Vi è rimasto un residuo di energia e pensate che i Wraith abbiano giocato tutte le carte a loro disposizione? Allora preparatevi all’assalto finale di “Terminate” dove, oltre alle solite godibili chitarre separate, potrete ascoltare cavalcate velocissime miscelate con cadenze mosh. ”Undo The Chains” non è un album innovativo, ma è ben suonato e ben prodotto quindi, da vecchio amante del Thrash quale sono, ve lo consiglio.

Trovi utile questa opinione? 
00
Segnala questa recensione ad un moderatore
releases
 
voto 
 
3.0
Opinione inserita da Corrado Franceschini    17 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 17 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Zona di Vancouver - Canada, anno 2014: tre musicisti provenienti da altre esperienze formano i Rebel Priest. Dopo tre dischi, uno dei quali dal vivo, e due EP, la band arriva a noi nell’agosto 2021 con l’Extended Play ”Lost In Tokyo”: titolo mutuato dal fatto che tre dei pezzi presenti, il quarto è una cover, sono stati scritti in Giappone. Non pensate all’Heavy Metal tagliente di Anvil ed Exciter, ma piuttosto ad un gruppo che fa suoi i dettami dell’Hair Metal e dello Street Metal nella scia di bands come Guns N’Roses, L.A. Guns e Zodiac Mindwarp. Immergetevi nell’atmosfera di un club fumoso del Sunset Strip degli anni ’80 dove il “taccone” di birra incolla i piedi al suolo e mettetevi all’ascolto. “Lost In Tokyo” è foriera di un Rock and Roll da strada alquanto “sudicio”. Ritornello incessante e un paio di soli di chitarra: uno asimmetrico non entusiasmante e uno più lineare nella norma, fanno ben capire l’indole della band. “Back Alley Blues” mischia vari elementi ma potrebbe essere etichettata come Hair Metal metà anni ottanta: molto bello il riff potente. “Vulgar Romance” è una miscela di Hard e melodia dall’andamento dondolante, con più fasi di chitarra in evidenza. A chiudere l’EP. Troviamo “When The Whip Comes Down”: cover del gruppo canadese Slash Puppet (combo nato nel 1989 - N.d.A.). In questo caso siamo in pieno territorio Street con un arrangiamento più duro che in origine il quale si rifà apertamente allo stile dei L.A. Guns. L’artwork di copertina del CD a cura del batterista Nate Pole non è molto accattivante ed il lavoro di mix e mastering di Rene De La Muerte non è sempre impeccabile ma, se volete passare poco più di un quarto d’ora respirando l’aria dei gloriosi anni passati, sognando il sole di Los Angeles, “Lost in Tokyo” fa al caso vostro.

Trovi utile questa opinione? 
10
Segnala questa recensione ad un moderatore
releases
 
voto 
 
4.5
Opinione inserita da Corrado Franceschini    07 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 07 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Ciclicamente si torna a parlare della New Wave Of British Heavy Metal. Sono tanti i gruppi che ne ripropongono il suono e che hanno raccolto il vessillo lasciato sul terreno da chi ha ceduto le armi. Robb Weir, fondatore e chitarrista dei Tygers of Pan Tang, non ha mai pensato realmente di ritirarsi e, dopo innumerevoli cambi di formazione e alcuni momenti di stasi, è arrivato a quarantaquattro anni di attività musicale sfornando un EP di quattro pezzi dal titolo “A New Heartbeat”. In un periodo nel quale la pandemia ha azzerato i tour e limitato i contatti personali, Rob e compagni hanno deciso di dare una nuova veste a due canzoni presenti in “Wild Cat”, primo disco sulla lunga distanza uscito nel 1980, e di proporre due brani nuovi di zecca. “A New Heartbeat” si apre con la traccia omonima ed è chiaro che le tigri sono ancora capaci di graffiare e lo fanno a suon di un Heavy Metal diretto e scatenato. Va detto che i “giovani” Francesco Marras alla chitarra e Jacopo Meille alla voce, contribuiscono a dare freschezza ed energia al pezzo e nel far ciò, trovano dei validi alleati nella sezione ritmica formata da Gav Grey (bs) e Craig Hellis (bt). Per i puristi del suono lascio una piccola nota: personalmente avrei ridotto la presenza di una chitarra che, nel frangente ritmico durante il solo, crea un suono troppo pieno. ”Red Mist” è un classico pezzo Heavy Metal fortemente debitore nei confronti dei Judas Priest più diretti e ispirati. Bello il suono moderno prodotto dal mix a cura di Marco Angioni e dal mastering completato da Harry Hess. “Fireclown” è il primo pezzo tratto da “Wild Cat”: inizia con una base di tastiere, da lì in poi s’insinua il basso e via che si parte in crescendo. Valido il solo di Francesco Marras piazzato su di un ritmo scatenato e la sua chitarra che, dopo un primo rientro, ci accompagna in maniera tracotante fino alla fine. “Killers”, secondo pezzo tratto da “Wild Cat”, mantiene intatti i riff atletici e vigorosi della N.W.O.B.H.M., per intenderci quelli usati anche dai Raven. Anche in questo caso la chitarra gioca un ruolo fondamentale lanciandosi in un solo prolungato innestato su molteplici cambi di ritmo. Recentemente è entrato nella formazione il bassista Huw Holding (ex-Blitzkrieg e Avenger) al posto di Gav Grey; data la sua comprovata esperienza, il futuro dei Tygers Of Pan Tang sarà ancor più radioso.

Trovi utile questa opinione? 
00
Segnala questa recensione ad un moderatore
releases
 
voto 
 
3.5
Opinione inserita da Corrado Franceschini    28 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 28 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti  -  

A tre anni dalla nascita, ecco che arriva l’esordio discografico della band italiana tutta al femminile delle Hellfox. Avevo ascoltato il singolo “Dead Star” pubblicato a fine 2020, e mi aveva colpito per due ragioni. In primo luogo il dualismo tra la voce pulita di Greta Antico e quella in growl di Priscilla Foresti rappresenta una sorta di novità per una band di donne mentre è più scontata in una female fronted band normale. In secondo luogo il ritornello è di quelli che si piazzano in una parte del cervello e albergano lì per parecchi giorni: cosa di per sé vincente. Va da sé, quindi, che da “The Call” mi aspettavo grandi cose. Le Hellfox, per loro stessa ammissione, dichiarano di ispirarsi a gruppi come Amorphis, In Flames e Dark Tranquillity ma, personalmente, al blocco aggiungerei i Sentenced e un briciolo di Dimmu Borgir (testi a parte). Il Primo pezzo intitolato “Haunted” può essere comparato con quelli della band di “Tales From The Thousand Lakes” e “Tuonela”: non è un caso se cito proprio questi due lavori, così come il brano “Our Lady Of Sorrows” uscita come singolo e video nel dicembre 2021. Le alternanze delle due voci si ripetono e così facendo, contribuiscono a creare un clima malinconico ma anche “ostile”. In “Rising” quello che si nota è una certa indecisione di Gloria Capelli alla chitarra, quasi avesse timore a dare il suo contributo per appesantire il brano. In “Nothing Really Ends” le Hellfox cambiano strada e seguono il percorso del Metal melodico sfruttando le armonizzazioni della voce di Greta e producendo ampie aperture: qualche errore nel bilanciamento nei volumi degli strumenti e alcune fasi già sentite mi fanno ritenere questo brano nella norma. Con “Rebirth” prende piede il Metal sinfonico con tastiere e si acuisce la vena oscura mentre, nel finale, assistiamo a una sterzata verso lidi spazio – psichedelici. “Your Name” torna nella scia esplorata nei primi brani anche se in alcune fasi le voci distinte, anziché alternarsi, collaborano assieme raggiungendo un buon risultato. “Bleeding Machine” mostra un’alternanza di ritmi e generi palesando buone idee. La conclusiva “Dead Star”, riproposta nel disco come bonus track in veste rimasterizzata, conferma il giudizio positivo dato da me alla versione primigenia. In conclusione ritengo che “The Call” sia un disco interessante anche se, a mio avviso, le Hellfox dovrebbero curare di più in futuro la fase produttiva e decidere se seguire il filone maestro: quello di Amorphis e compagnia bella dove i gruppi femminili latitano, o il Metal sinfonico; campo più inflazionato.

Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
releases
 
voto 
 
4.5
Opinione inserita da Corrado Franceschini    15 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 15 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti  -  

A quarant’anni dalla nascita e a distanza di quattro anni dall’ultimo disco “The Wake”, da me recensito con voto 4,5/5, i Voivod tornano in pista e pubblicano il quindicesimo album dal titolo “Synchro Anarchy”. A partire dal terzo album (“Killing Technology” del 1987) la band ha sviluppato un suono particolare e riconoscibile in mezzo a mille altri: una sorta di Metal tecnico, dissonante e “spaziale”, dove nei testi non mancano mai riferimenti al cosmo e squarci aperti sulla realtà e sui pericoli che ci circondano. Grazie a una formazione stabile dal 2014 i Voivod sono garanzia di qualità. Gli appassionati avranno già avuto modo di apprezzare i quattro video che hanno accompagnato questa uscita. Io, da parte mia, ho il compito di ampliare la visuale e commentare le sensazioni provocatemi da questo disco. Partirei proprio dal primo singolo scelto, ovvero “Planet Eaters”. In questo caso si potrebbe parlare di uno dei brani più semplici dell’intero lavoro ma questa asserzione non deve fuorviarvi. Ci sono sempre i molteplici cambi che caratterizzano le composizioni del combo francofono e sono più di quelli che alcuni gruppi inseriscono in più canzoni messe assieme. Il secondo singolo, “Paranormalium”, mi ha fatto pensare ad alcuni accordi Free Jazz riportati in chiave Metal, alternati a fasi claustrofobiche e ritmiche spezzate. Il terzo singolo: l’omonima “Synchro Anarchy”, ci porta a spasso nel cosmo e ci fa ammirare virtualmente frammenti di asteroidi e “rottami spaziali”. Anche “Mind Clock” ci indica musicalmente una certa dispersione mentale e lo fa attraverso accordi “decadenti” e una buona dose di riff intricati. “Sleeves Off”, uscita da pochi giorni come quarto video, è un continuo fermarsi e ripartire con inserti caratteristici del Thrash Metal. “Holographic Thinking” è una canzone particolarmente bella: psichedelica, spaziale, con cambi totali, gode di un solo di chitarra a cura di Chewy (Daniel Mongrain) piazzato su una ritmica inusuale. “World Today” è un altro bel pezzo caratterizzato dai giri di basso di Rocky (Dominique Laroche) e dal finale in crescendo. “Quest For Nothing” è caratterizzata da una certa cattiveria sonora alternata a fasi epiche e stop and go. “Memory Failure” segue la classica scia delle composizioni del combo e non aggiunge nulla di nuovo a ciò che ho detto. Se non conoscete i Voivod e avete voglia di musica immediata e fruibile lasciate perdere questo disco; potrebbe disturbarvi. Se invece siete dei fan del quartetto, o siete ascoltatori aperti a territori musicali sconfinati, “Synchro Anarchy” è ultra consigliato. Se fossi in voi, tra i vari formati disponibili, sceglierei quello che ha come bonus il CD “Return To Morgoth – Live 2018”.

Trovi utile questa opinione? 
00
Segnala questa recensione ad un moderatore
releases
 
voto 
 
3.0
Opinione inserita da Corrado Franceschini    07 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 07 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Ogni qual volta che si nominano i lombardi GunJack viene naturale accostarli ai Motörhead. La voce di Mr. Messerschmitt (Alessandro Dominizi), è ruvida come la carta vetrata e rotta dal bere e dalle sigarette e il suo basso pulsa e “rotola” al servizio di un ritmo che ricorda spesso la band di Lemmy, innestandosi su ritmiche veloci. Come se non bastasse la batteria di M47 (Andrea Ornigotti), corre come un treno, e le chitarre di Gamma Mörser (Fabio Cavestro), si perdono talvolta in fraseggi a spirale degni di canzoni come “Metropolis”; ma sono capaci anche di soli “disordinati” a tutta velocità. Se i primi due dischi del terzetto italiano erano compatibili in pieno con quanto scritto sopra per il terzo disco: “The Third Impact”, le cose sono parzialmente cambiate e ribadisco parzialmente. Il basso è stato reso più “saturo” e distorto e contribuisce con il suo suono a creare un clima plumbeo degno di una giornata che promette tempesta: un fenomeno che a volte è solo una minaccia, mentre altre volte si manifesta con un nubifragio vero e proprio. La batteria, invece, mantiene il suo corso più o meno veloce, attenendosi al tempo. Se devo dire qualcosa sulla resa punto il dito contro le chitarre: vanno benissimo i soli impazziti ma, a volte, sarebbe stato meglio calibrarli e farli aderire meglio al ritmo. I GunJack hanno cercato di smarcarsi parzialmente dal loro status inserendo in alcuni dei dodici pezzi del disco delle fasi epiche e oscure e questo, tutto sommato, gli è riuscito bene. Io non mi fermerei al confronto con i Motörhead, ma tirerei in ballo anche gruppi come i Sodom - poteva mai essere altrimenti? - o Nuclear Assault - la partenza dopo la cadenza massiccia di “Meltdown” dice tutto - oppure ancora i nostrani Baphomet’s Blood e, perché no?, i Bulldozer, vedasi il primo singolo/video ”Heart of Tank”. Le cose più strane del disco, almeno per ciò che riguarda la band come la conoscevamo, sono l’iniziale “Dagon”, un pezzo oscuro dai cori inquisitori, e la strumentale “Coma”, la quale ha dei passaggi di chitarra da una cassa all’altra che mi hanno vagamente ricordato l’inizio “Run Like Hell” dei Pink Floyd. Brani da ascoltare? Io vi suggerisco “The Tournament”, che possiede una cadenza pesante come un macigno e un’apertura di stampo nordico e “Destroy the Seventh Seal”, un continuo alternarsi di cambi, riff spezzati, break e ripartenze. “The Third Impact” è adatto ai gusti di coloro che amano il suono grezzo, veloce e primitivo, ma potrebbe piacere anche ai metallari che prediligono qualche stop per far riposare le orecchie.

Trovi utile questa opinione? 
00
Segnala questa recensione ad un moderatore
releases
 
voto 
 
3.5
Opinione inserita da Corrado Franceschini    02 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 02 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti  -  

E’ difficile pensare al Canada come una terra fertile per ciò che concerne l’Heavy Metal eppure, da qualche anno a questa parte, si sono moltiplicate band ed etichette che hanno voglia di pubblicare dischi ed esportarli al di fuori dei patri confini. I Maule, nati a Vancouver nel 2017, raccolgono il vessillo della N.W.O.B.H.M. e nel loro esordio sulla lunga distanza dal titolo omonimo, piazzano nove pezzi con l’intenzione di far rivivere quel periodo così importante per la storia del metallo. Quando ascoltate i primi due dischi degli Iron Maiden soffrite di nostalgia e vi chiedete perché nessuno, o quasi, suoni in quel modo oggigiorno? Almeno quattro pezzi del disco su nove presenti fugheranno questo senso di tristezza. Il bassista Johnny Maule, il batterista Eddie Riumin e le twin guitars appannaggio di Jacob Weel (chitarra ritmica e cantante) e Daniel Gottardo (chitarra solista: oggi sostituito da Justin Walker) infatti, hanno imparato, bene, la lezione di Steve Harris & co. Non aspettatevi da Weel la voce di Paul DìAnno: la sua è più “acida” e raspante di quella del vecchio leone malandato. Ascoltate “Evil Eye”, “Ritual” e “Summoner”: arriverete alla mia stessa conclusione, ovvero che la tonalità è più adatta al genere Speed/Thrash. Attenzione perché la band è in grado anche di premere il pedale sull’acceleratore come avviene nel brano - manifesto “Maule”. I testi del gruppo sono incentrati su storie di vita e di morte ma ci sono anche delle digressioni letterarie supportate da un cambio di ritmo sonoro improntato allo Speed Metal. E’ il caso di “Red Sonja”: canzone musicalmente ben strutturata dedicata all’eroina creata da Robert E. Howard e portata nel mondo dei fumetti dallo scrittore Roy Thomas e dall’artista Barry Windsor Smith (disegnatore Marvel, di Conan e della serie “Rune”). Se in “Sword Woman” sembra di ascoltare per lunghi tratti gli Iron Maiden a 45 giri, in “Father Time” il ritmo subisce un drastico rallentamento andando a toccare temi epici e oscuri. In “March Of The Dead”: brano dalla cadenza media ammantato di nuovo da toni epici, le chitarre svolgono un ruolo fondamentale e “lavorano” incessantemente. La conclusiva “We Ride”, grazie ai suoi numerosi cambi, lascia nell’ascoltatore una buona impressione e fa ben sperare per un futuro secondo lavoro dei Maule. Se riuscite a bypassare lo scoglio di una voce arcigna che imperversa in tutti i brani e non cercate la novità a tutti i costi, vi consiglio l’ascolto di questo disco; potrebbe rappresentare un piacevole balzo all’indietro nel tempo.

Trovi utile questa opinione? 
10
Segnala questa recensione ad un moderatore
releases
 
voto 
 
4.0
Opinione inserita da Corrado Franceschini    26 Gennaio, 2022
Ultimo aggiornamento: 02 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti  -  

A distanza di dieci anni dal disco di debutto “L’inquietudine” (voto su Allaroundmetal 3.5/5) eccomi qua ad occuparmi nuovamente degli Shake Me. La band capitanata dal cantante Luca Albarella ha fatto uscire nell’ottobre 2021 “Lullaby For Demons” e ha piazzato in esso alcune novità che, ve lo annuncio già, saranno parte in causa delle domande che farò a Luca in una prossima intervista. In questo nuovo lavoro la voce è maggiormente in evidenza e questa cosa, da me auspicata nella recensione dell’esordio, reca giovamento alle tracce. I testi in passato erano in italiano mentre ora sono in inglese e devo dire che la pronuncia non è sempre propriamente corretta. Una cosa che invece è pienamente riuscita - non è sempre una cosa scontata - è il coinvolgimento di parecchi ospiti che hanno impreziosito con la loro opera le dodici tracce. L’inserimento di chitarristi come Fabio Calluori degli Heimdall (fautore anche del mix e mastering del disco), James Castellano (Piero Pelù, Gianna Nannini, etc), Ricky Portera (Stadio, Lucio Dalla, Nek e altri) e Alex de Rosso (Dokken e solista) ha portato a un indurimento del suono che, comunque, rimane dalle parti dell’Hard Rock di classe e pieno di melodia senza mai sfociare in virtuosismi esagerati o fughe ai cento all’ora. Nella seconda parte di “Lullaby For Demons”, quella in cui non ci sono i sopra citati chitarristi, gli Shake Me optano per un Rock più di maniera con parti che vanno a toccare il campo della SinthWave: suono accarezzato dalle tastiere. Non è di certo un caso se la cover scelta questa volta (in precedenza era toccato a “Regina di Cuori” dei Litfiba) è “Laid So Low (Tears Roll Down)” dei Tears For Fears, o che in brani come “Savage Love” e “Lonely Call” ci sia un fugace riff che ricorda “Addicted To Love” di Robert Palmer. A dimostrare la buona qualità del disco basterebbe l’apripista “Alive”: un Hard Rock avvolto in maniera suadente dalle tastiere suonate da Mark Basile (DGM), dal suono bello pulito. A livello personale posso dire che mi ha intrigato parecchio “The Eretical” per la sua capacità di passare agevolmente da un tipo di suono ad un altro e il fatto che alla chitarra ci sia Alex De Rosso, non può che far guadagnare punti al brano. Per il resto, come detto, c’è spazio sia per l’easy Rock americano di classe (“Evil Road”) che per il Rock “romantico” di “Geisha”. Nota di chiusura per la versione elettro-lounge di “Shadows”: una canzone capace di trasportare nel limbo dei sogni e permeata di dolcezza.

Trovi utile questa opinione? 
10
Segnala questa recensione ad un moderatore
releases
 
voto 
 
4.0
Opinione inserita da Corrado Franceschini    14 Gennaio, 2022
Ultimo aggiornamento: 14 Gennaio, 2022
Top 10 opinionisti  -  

L’appuntamento con gli inglesi Magnum (nati nel 1972 a Birmingham N.d.A.) si rinnova anche per quest’anno 2022. Il nuovo lavoro “The Monster Roars” presenta alcune piccole novità a partire dalla copertina in cui, al posto del solito disegno di Rodney Matthews, troviamo uno scatto fotografico di Rob Barrow: fratello dell’ex bassista della band Al Barrow. Anche i testi hanno subito qualche cambiamento visto che stavolta, in molti casi, si è preferito trattare argomenti più aderenti alla vita reale. Ultima vera novità è l’entrata in seno al gruppo del bassista americano Dennis Ward, ex-Pink Cream 69. Dal punto di vista musicale la coppia Clarkin/Catley ha consolidato nei decenni un timbro sonoro che è come un marchio di fabbrica riconoscibile; inutile aspettarsi stravolgimenti radicali. “The Monster Roars” contiene dodici tracce ben suonate e ottimamente mixate e masterizzate. La voce di Bob Catley è un poco appannata dallo scorrere del tempo, ma fa ancora la sua bella figura. Tony Clarkin si abbandona poche volte ai soli di chitarra e, quando li esegue, sono quasi sempre di una semplicità disarmante ma il suo apporto in fase di costruzione dei pezzi e dei riff portanti, non si discute. Chi sorregge tutto, e lo fa in maniera magistrale, è il tastierista Rick Benton al quale sono stati affidati grandi spazi di azione sia in fase di tratteggio del ritmo, sia in fase di solismo. Quello che ascolteremo, è oramai chiaro, sarà il solito Hard melodico venato di Pomp e Progressive Rock. Ci sono parecchie canzoni che mantengono un continuum spazio – temporale con gli album precedenti, tanto che sembra siano state scritte come outtakes e rimaste nel cassetto. Sto parlando ad esempio di “I Won’t Let You Down” o “The Present Not The Past”. Ci sono altri brani, invece, che cercano di smarcarsi dai cliches. Questo fatto è più evidente in “All You Believe In” in cui, come suggerisce il foglio del presskit, si è voluto andare a toccare lo stile dei Queen. Devo ammettere che l’operazione è riuscita bene e che il solo di chitarra, suonato alla maniera di Brian May, è veramente bello. L’Hard gioioso e pomposo di “No Steppin’ Stones” mi ha ricordato l’album “Suonare Suonare” della PFM mentre “Walk The Silent Planet” mi ha riportato ai tempi dell’uomo delle stelle (David Bowie N.d.A.). In chiusura di recensione vorrei consigliarvi di ascoltare i tre brani che più mi hanno colpito; “That Freedom World”, “Your Blood Is Violence” e “Come Holy Man”. Al pari di gruppi come AC/DC e i compianti Motorhead, i Magnum, attualmente, non brillano per originalità, ma piacciono per ciò che sono e per ciò che suonano. Teniamoceli stretti.
P.S. l’album, oltre che su CD, è uscito anche in doppio vinile rosso, in box in edizione limitata con tre pezzi in più, e in box con CD, LP e maglia.

Trovi utile questa opinione? 
00
Segnala questa recensione ad un moderatore
releases
 
voto 
 
3.5
Opinione inserita da Corrado Franceschini    03 Gennaio, 2022
Ultimo aggiornamento: 03 Gennaio, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Il nome di Michael Schinkel, cantante e chitarrista degli Eternal Flame, non è certo tra i più famosi del panorama Heavy Metal mondiale ma, se siete curiosi come me, potete fare un giro di consultazione in rete. Troverete il musicista tedesco e il bassista Thomas Keller, con lui negli Eternal Flame, In una formazione a nome Firefox fautrice di un demo nel 1989 mentre il solo Schinkel lo potete trovare anche in una delle incarnazioni degli StromHammer: band che in Germania ha goduto di una certa popolarità. Eternal Flame si sono formati nel 1993 e “Gravitation” è il loro quarto disco.La musica proposta dal quartetto può essere accomunata per la maggior parte a quella di gruppi quali Dokken, MSG e Malmsteen. Una fortissima spinta in quella direzione viene data dai due cantanti ospiti Goran Edman e Mark Boals, che quelle band le conoscono molto bene. L’intro ”Awakening” alquanto scontato e la successiva “Rage”: un Power Metal battente ben studiato ma con divari negli stacchi troppo accentuati, non mi hanno entusiasmato. Dal terzo pezzo: la semi ballata “Hard Times For Dreamers”, il disco prende una piega più gradevole e professionale. “Love Returns”, con un Mark Boals in piena forma, segue la scia del MSG di “Into the Arena” e il solo di Schinkel, se pur con un suono di chitarra diverso da quello della Flying V, segue lo stile dell’ex Scorpions. “Damien” è supportata dalle magniloquenti tastiere di Helmut Kohlpaintner. Hard Rock classico, potente e melodico corroborato dalla voce di Goran Edman: questo è ciò che offre “No Way To Hide”. L’Hard andante di “I’m Gonna Miss Tonight” lascia le chitarre (sovra incise, ovviamente N.d.A.) libere di condurre il gioco. Nella strappalacrime ”Strange Game Called Love” aleggia fortissimo lo spettro dei Whitesnake. In “Stay In The Middle Of The Night” torna la voce di Boals che si porta dietro il retaggio dei Dokken mentre il solo ricorda molto lo stile caro agli Europe dell’epoca J. Norum. “Higher Fire” è un Hard & Heavy denso di melodia con un ritornello possente. “Fallin” si dibatte fra un ritmo cadenzato semilento e una marcia dall’incedere duro. La chiusura del disco è affidata alla cover in chiave Metal di “Hungarian Dance #5” un pezzo che, sinceramente, poteva risultare migliore e più coinvolgente/brioso. Nonostante qualche piccolo passo falso gli Eternal Flame hanno dimostrato con “Gravitation” di essere in possesso di una buona perizia strumentale. Se non cercate l’originalità a tutti i costi: cosa molto difficile da trovare nel campo dell’Heavy Metal, fate vostro questo CD.

Trovi utile questa opinione? 
00
Segnala questa recensione ad un moderatore
349 risultati - visualizzati 61 - 70 « 1 ... 4 5 6 7 8 9 ... 10 35 »
Powered by JReviews

releases

Subterraen: un cambio di stile totale decisamente buono, ma c'è ancora da lavorarci su
Valutazione Autore
 
3.5
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Ixion: un quinto album sicuramente bello, ma troppo, troppo breve
Valutazione Autore
 
3.5
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Idolatrous: dagli USA il debutto dal sound nordeuropeo della band
Valutazione Autore
 
4.0
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Crying Steel: Heavy Metal duro e puro
Valutazione Autore
 
4.0
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Blazing Eternity, i pionieri del Gothic/Doom tornano con un album maestoso
Valutazione Autore
 
5.0
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Crucifier: dagli anni '90 per gli amanti dell'Extreme Metal degli anni '90
Valutazione Autore
 
3.0
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)

Autoproduzioni

Razor Attack, ci vuole di meglio
Valutazione Autore
 
2.0
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Dialith, un breve EP che conferma le qualità del gruppo
Valutazione Autore
 
4.0
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Ancient Trail, un disco che merita attenzione
Valutazione Autore
 
4.0
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Scarefield: orrorifici!
Valutazione Autore
 
4.0
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Dyspläcer, un debut album che fa intravedere del talento
Valutazione Autore
 
3.0
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)
Blood Opera: grande incompiuta
Valutazione Autore
 
3.5
Valutazione Utenti
 
0.0 (0)

Consigli Per Gli Acquisti

  1. TOOL
  2. Dalle Recensioni
  3. Cuffie
  4. Libri
  5. Amazon Music Unlimited

allaroundmetal all rights reserved. - grafica e design by Andrea Dolzan

Login

Sign In

User Registration
or Annulla