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Opinione scritta da Corrado Franceschini

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    02 Mag, 2022
Ultimo aggiornamento: 02 Mag, 2022
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Il 6 aprile 2022 Udo Dirkschneider, ex cantante degli Accept con una lunga carriera solista sulle spalle, ha compiuto settant’anni. Due settimane dopo l’Atomic Fire Records ha fatto uscire il CD di cover “My Way”. A volte mi chiedo se tutti i gruppi che ho ascoltato verranno tramandati ai posteri e questo, più o meno, deve essere il ragionamento che ha fatto Udo mettendo in musica i brani più rappresentativi della sua esistenza. Una formazione stabile, con l’innesto degli ex compagni Stefan Kauffman (chitarra ritmica e cori) e Peter Baltes (basso), ha collaborato assieme a molti altri musicisti e il risultato sono le diciassette tracce, alcune note altre molto meno, di “My Way”. Devo dire che la presenza di molti chitarristi che a turno hanno suonato nelle diverse canzoni, meritava un lavoro migliore e più accurato in fase di mixaggio e masterizzazione. Tolta questa pecca, il disco risulta godibile. Udo e compagni hanno provveduto a “squadrare” con tipico taglio teutonico molti dei brani conferendo loro un tocco metallico. Siamo così abituati ad ascoltare i brani originali che le cover, talvolta, non ci convincono. Non è il caso di “The Faith Healer” di Alex Harvey (The Sensational Alex Harvey Band), che è stata cromata con un riff di metallo puro a dispetto di una versione primigenia più soft e ipnotica: non dimentichiamo che il brano è del 1973. Altri pezzi ben riusciti, sempre tralasciando gli eventuali errori commessi dal banco di regia, sono “The Stroke” Di Billy Squier, un Hard & Heavy cadenzato con ritornello da cantare in coro, e “Paint It Black” dei Rolling Stones in versione edit, caratterizzata dalla voce arcigna di Udo. “He’s a Woman - She’s a Man” (Scorpions) è bella grintosa e supportata da un buon arrangiamento, mentre “Jealousy” di Frank Miller, si è rivelata alle mie orecchie come una sorpresa per il suo andamento che passa dal semi-lento all’Hard e per la sua chitarra lancinante che accompagna il pezzo al finale. I video di “We Will Rock You” (Queen) e “Kein Zurück” (Wolfsheim) li avrete già visti, quindi non mi dilungo in spiegazioni. Rimangono fuori molti altri brani ma, scegliendo quelli che reputo meno riusciti rispetto agli originali, segnalo “Fire” (The Crazy World Of Arthur Brown), che ha perso completamente la patina antica ed evocativa, e “Rock and Roll” (Led Zeppelin). Se volete fare un salto nel passato e scoprire gruppi e artisti che non conoscete (sono sicuro che nel disco ce ne sono), “My Way” può esservi d’aiuto.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    23 Aprile, 2022
Ultimo aggiornamento: 24 Aprile, 2022
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Prima di accettare la recensione di “Planet Pink”, disco uscito nel 2022 a cura dei tedeschi J.B.O., ho letto il presskit in cui alla voce genere era scritto “Fun Metal”. Per curiosità ho cercato i video di “Planet Pink” e “Einhorn” su YouTube e devo dire che, fra citazioni varie e gag mi sono divertito, cosa non facile di questi tempi. I J.B.O. si sono formati nel 1989 e hanno all’attivo un buon numero di dischi, quindi sono dei musicisti esperti e preparati. Purtroppo, ciò che funziona accostando musica e immagini non è sempre valido ascoltando i files MP3 senza supporto visivo. Sono certo del fatto che se un ascoltatore conosce la lingua tedesca ci saranno dei giochi di parole divertenti, ma basandosi sulla musica, la tentazione di bollare i J.B.O. come una band da Oktoberfest è forte. Parliamo comunque di un suono vario che salta dal Pop Punk scanzonato di “Rockmusik Hat Mich Versaut” e “Immer Noch Am Leben” al Rock melodico volgente al Pop di “Einhorn”, che, per inciso, ha un ritornello canticchiabile e accattivante. Proseguendo nell’excursus dei generi musicali troviamo anche due cover: “Planet Pink” è il rifacimento in chiave Rock sinfonico della hit mondiale “Blue (Da Ba Dee)” del duo italiano Eiffel 65; “Metal Was My First Love”, invece, è la cover del brano “Music”, portato al successo nel 1976 da John Miles: una versione che, dopo lo incipit iniziale sognante, parte e sfocia in un Power/Heavy veramente riuscito, per poi tornare dolce. Tanto per confondere ancora di più le acque vi dico che “Klassiker!”, come s’intuisce dal titolo, presenta inserti di pezzi classici quali la quinta e la nona sinfonia conosciuta come “Inno alla gioia”, di Ludwig van Beethoven, e altri stacchi. “Mi – Ma – Metal” è una giocosa filastrocca Heavy con pregevoli inserti di chitarra, ma è troppo assillante nel suo ripetere il titolo. Quando pensavo che il campionario musicale dei J.B.O. fosse completato ecco arrivare “Volks-Prog”. Qui il quartetto passa agevolmente dal Country all’Heavy, per poi arrivare a una brevissima fase in stile Voivod. “Planet Pink” possiede un sacco di sfaccettature e questo miscuglio rischia di disorientare l’ascoltatore, ma se avete una mentalità musicale più che aperta, potreste divertirvi e passare del tempo senza troppe ansie.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    10 Aprile, 2022
Ultimo aggiornamento: 11 Aprile, 2022
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Se dovessi descrivere con un aggettivo i lombardi Di'aul li definirei monolitici. Fate conto di essere in un pub londinese dei primi anni settanta: gente con i capelli lunghi attorno a voi e aria pervasa da zaffate di fumo “misto”. Sul piccolo palco ci sono gli amplificatori valvolari accesi: entra il gruppo, attacca i cavi, e scarica sul pubblico la catacombale “Black Sabbath”. Fate un salto di circa cinquant’anni. Siete a Milano: i ragazzi con i capelli lunghi non esistono quasi più; nei locali non si può fumare e gli amplificatori sono di marca Orange. Tutto è cambiato eppure la musica dei Di'aul, quella contenuta nelle sette tracce di “Abracamacabra”, è l’erede diretta degli anni della contestazione. “Thou Growl” ha il potere di schiacciarvi come un masso dal peso di un quintale, e lo fa utilizzando dei riff saturi e compressi. “This Quiet” si districa tra fasi più o meno pesanti, fino ad arrivare alle sciabolate della chitarra di Daniele “Lele” Mella incastonate su di un ritmo dal tenore orientale. “Abracamacabra” è in grado di stupire e ci riesce attraverso molteplici passaggi, alcuni dei quali “trascinati”, accompagnati dalla voce arcigna di Cosimo Aurelio “Momo” Cinelli. “De Profundis”, dopo avervi attirato con un vortice a spirale verso il basso, parte ai 3’10” virando verso l’Hard in semi velocità, per poi farvi tornare a fondo. “The Loser’s River” è permeata da così tanti cambi che non avrete di certo il tempo d’annoiarvi. “La Notte di Valpurga” è un brano abbastanza veloce per i canoni ai quali ci hanno abituato i Di'aul: la metterei fra i brani Hard ispirati alla N.W.O.B.H.M. “Time Of No Return” ha un titolo che è tutto un programma. Ascoltatela fino ai 6’30” e non schiacciate il tasto stop; aspettate fino ai 6’50” quando arriva una chitarra arpeggiata stile “The Call of Ktulu” (Metallica: album “Ride The Lightning” N.d.A.), e fatevi accompagnare fino alla fine del brano che chiude il disco. Raramente faccio i complimenti a chi ha lavorato a livello di produzione e “regia”, ma questa volta voglio elogiare l’Angelo Studio dove “Abracamacabra” è stato registrato, Marco Barrusso (Lacuna Coil, Coldplay etc) che ha mixato il disco, e Marco D’Agostino che lo ha masterizzato. Questa sinergia ha elaborato un prodotto nitido dove, però, l’essenza degli anni settanta è rimasta intatta. Se amate alla follia Ozzy e compagni, e vi piacciono le produzioni alla Kyuss/Orange Goblin, fate vostro “Abracamacabra”.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    30 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 30 Marzo, 2022
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I Wraith, combo nato nel 2016 nell’Indiana (U.S.A.), sembra che provengano direttamente dall’inizio degli anni ottanta; periodo nel quale Speed e Thrash Metal lanciavano i loro primi vagiti. La formazione non ha subito cambi ma, nel 2020, è passata da tre a quattro elementi con l’inserimento del nuovo chitarrista solista Jason Schulz. Su quali binari si muovo i Wraith è presto detto: hanno una forte componente che riporta direttamente ai primi due album dei Metallica. Vi basti sapere che “Mistress Of The Void” è la sorella illegittima di “Metal Miltia” e che “Cloaked In Black”, nella seconda parte, sia strettamente imparentata con il sound di James Hetfield & Co. Dopo avere effettuato la trasvolata transoceanica che ci ha portati virtualmente e musicalmente nella Bay Area, prendiamo il biglietto di ritorno per l’Europa che, nei gloriosi anni ottanta, non stette di certo alla finestra a guardare e partorì band come Venom e Bulldozer. Queste due entità sono ben riconoscibili e presenti in canzoni come “Dominator”, pezzo dove le chitarre di Matt Sokol e Schulz sono divise equamente negli altoparlanti e, pertanto, riconoscibili (una cosa che mi fa sempre piacere ascoltare) e “Bite Back”. Se la violenza musicale è il vostro pane quotidiano, l’anthemica e velocissima “Gate Master” e “Victims Of The Sword”, vi sfameranno. Se invece avete voglia di sfogarvi nel circle pit, troverete nella cadenza alla fine di “Disgusting” un degno dessert. Vi è rimasto un residuo di energia e pensate che i Wraith abbiano giocato tutte le carte a loro disposizione? Allora preparatevi all’assalto finale di “Terminate” dove, oltre alle solite godibili chitarre separate, potrete ascoltare cavalcate velocissime miscelate con cadenze mosh. ”Undo The Chains” non è un album innovativo, ma è ben suonato e ben prodotto quindi, da vecchio amante del Thrash quale sono, ve lo consiglio.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    17 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 17 Marzo, 2022
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Zona di Vancouver - Canada, anno 2014: tre musicisti provenienti da altre esperienze formano i Rebel Priest. Dopo tre dischi, uno dei quali dal vivo, e due EP, la band arriva a noi nell’agosto 2021 con l’Extended Play ”Lost In Tokyo”: titolo mutuato dal fatto che tre dei pezzi presenti, il quarto è una cover, sono stati scritti in Giappone. Non pensate all’Heavy Metal tagliente di Anvil ed Exciter, ma piuttosto ad un gruppo che fa suoi i dettami dell’Hair Metal e dello Street Metal nella scia di bands come Guns N’Roses, L.A. Guns e Zodiac Mindwarp. Immergetevi nell’atmosfera di un club fumoso del Sunset Strip degli anni ’80 dove il “taccone” di birra incolla i piedi al suolo e mettetevi all’ascolto. “Lost In Tokyo” è foriera di un Rock and Roll da strada alquanto “sudicio”. Ritornello incessante e un paio di soli di chitarra: uno asimmetrico non entusiasmante e uno più lineare nella norma, fanno ben capire l’indole della band. “Back Alley Blues” mischia vari elementi ma potrebbe essere etichettata come Hair Metal metà anni ottanta: molto bello il riff potente. “Vulgar Romance” è una miscela di Hard e melodia dall’andamento dondolante, con più fasi di chitarra in evidenza. A chiudere l’EP. Troviamo “When The Whip Comes Down”: cover del gruppo canadese Slash Puppet (combo nato nel 1989 - N.d.A.). In questo caso siamo in pieno territorio Street con un arrangiamento più duro che in origine il quale si rifà apertamente allo stile dei L.A. Guns. L’artwork di copertina del CD a cura del batterista Nate Pole non è molto accattivante ed il lavoro di mix e mastering di Rene De La Muerte non è sempre impeccabile ma, se volete passare poco più di un quarto d’ora respirando l’aria dei gloriosi anni passati, sognando il sole di Los Angeles, “Lost in Tokyo” fa al caso vostro.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    07 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 07 Marzo, 2022
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Ciclicamente si torna a parlare della New Wave Of British Heavy Metal. Sono tanti i gruppi che ne ripropongono il suono e che hanno raccolto il vessillo lasciato sul terreno da chi ha ceduto le armi. Robb Weir, fondatore e chitarrista dei Tygers of Pan Tang, non ha mai pensato realmente di ritirarsi e, dopo innumerevoli cambi di formazione e alcuni momenti di stasi, è arrivato a quarantaquattro anni di attività musicale sfornando un EP di quattro pezzi dal titolo “A New Heartbeat”. In un periodo nel quale la pandemia ha azzerato i tour e limitato i contatti personali, Rob e compagni hanno deciso di dare una nuova veste a due canzoni presenti in “Wild Cat”, primo disco sulla lunga distanza uscito nel 1980, e di proporre due brani nuovi di zecca. “A New Heartbeat” si apre con la traccia omonima ed è chiaro che le tigri sono ancora capaci di graffiare e lo fanno a suon di un Heavy Metal diretto e scatenato. Va detto che i “giovani” Francesco Marras alla chitarra e Jacopo Meille alla voce, contribuiscono a dare freschezza ed energia al pezzo e nel far ciò, trovano dei validi alleati nella sezione ritmica formata da Gav Grey (bs) e Craig Hellis (bt). Per i puristi del suono lascio una piccola nota: personalmente avrei ridotto la presenza di una chitarra che, nel frangente ritmico durante il solo, crea un suono troppo pieno. ”Red Mist” è un classico pezzo Heavy Metal fortemente debitore nei confronti dei Judas Priest più diretti e ispirati. Bello il suono moderno prodotto dal mix a cura di Marco Angioni e dal mastering completato da Harry Hess. “Fireclown” è il primo pezzo tratto da “Wild Cat”: inizia con una base di tastiere, da lì in poi s’insinua il basso e via che si parte in crescendo. Valido il solo di Francesco Marras piazzato su di un ritmo scatenato e la sua chitarra che, dopo un primo rientro, ci accompagna in maniera tracotante fino alla fine. “Killers”, secondo pezzo tratto da “Wild Cat”, mantiene intatti i riff atletici e vigorosi della N.W.O.B.H.M., per intenderci quelli usati anche dai Raven. Anche in questo caso la chitarra gioca un ruolo fondamentale lanciandosi in un solo prolungato innestato su molteplici cambi di ritmo. Recentemente è entrato nella formazione il bassista Huw Holding (ex-Blitzkrieg e Avenger) al posto di Gav Grey; data la sua comprovata esperienza, il futuro dei Tygers Of Pan Tang sarà ancor più radioso.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    28 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 28 Febbraio, 2022
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A tre anni dalla nascita, ecco che arriva l’esordio discografico della band italiana tutta al femminile delle Hellfox. Avevo ascoltato il singolo “Dead Star” pubblicato a fine 2020, e mi aveva colpito per due ragioni. In primo luogo il dualismo tra la voce pulita di Greta Antico e quella in growl di Priscilla Foresti rappresenta una sorta di novità per una band di donne mentre è più scontata in una female fronted band normale. In secondo luogo il ritornello è di quelli che si piazzano in una parte del cervello e albergano lì per parecchi giorni: cosa di per sé vincente. Va da sé, quindi, che da “The Call” mi aspettavo grandi cose. Le Hellfox, per loro stessa ammissione, dichiarano di ispirarsi a gruppi come Amorphis, In Flames e Dark Tranquillity ma, personalmente, al blocco aggiungerei i Sentenced e un briciolo di Dimmu Borgir (testi a parte). Il Primo pezzo intitolato “Haunted” può essere comparato con quelli della band di “Tales From The Thousand Lakes” e “Tuonela”: non è un caso se cito proprio questi due lavori, così come il brano “Our Lady Of Sorrows” uscita come singolo e video nel dicembre 2021. Le alternanze delle due voci si ripetono e così facendo, contribuiscono a creare un clima malinconico ma anche “ostile”. In “Rising” quello che si nota è una certa indecisione di Gloria Capelli alla chitarra, quasi avesse timore a dare il suo contributo per appesantire il brano. In “Nothing Really Ends” le Hellfox cambiano strada e seguono il percorso del Metal melodico sfruttando le armonizzazioni della voce di Greta e producendo ampie aperture: qualche errore nel bilanciamento nei volumi degli strumenti e alcune fasi già sentite mi fanno ritenere questo brano nella norma. Con “Rebirth” prende piede il Metal sinfonico con tastiere e si acuisce la vena oscura mentre, nel finale, assistiamo a una sterzata verso lidi spazio – psichedelici. “Your Name” torna nella scia esplorata nei primi brani anche se in alcune fasi le voci distinte, anziché alternarsi, collaborano assieme raggiungendo un buon risultato. “Bleeding Machine” mostra un’alternanza di ritmi e generi palesando buone idee. La conclusiva “Dead Star”, riproposta nel disco come bonus track in veste rimasterizzata, conferma il giudizio positivo dato da me alla versione primigenia. In conclusione ritengo che “The Call” sia un disco interessante anche se, a mio avviso, le Hellfox dovrebbero curare di più in futuro la fase produttiva e decidere se seguire il filone maestro: quello di Amorphis e compagnia bella dove i gruppi femminili latitano, o il Metal sinfonico; campo più inflazionato.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    15 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 15 Febbraio, 2022
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A quarant’anni dalla nascita e a distanza di quattro anni dall’ultimo disco “The Wake”, da me recensito con voto 4,5/5, i Voivod tornano in pista e pubblicano il quindicesimo album dal titolo “Synchro Anarchy”. A partire dal terzo album (“Killing Technology” del 1987) la band ha sviluppato un suono particolare e riconoscibile in mezzo a mille altri: una sorta di Metal tecnico, dissonante e “spaziale”, dove nei testi non mancano mai riferimenti al cosmo e squarci aperti sulla realtà e sui pericoli che ci circondano. Grazie a una formazione stabile dal 2014 i Voivod sono garanzia di qualità. Gli appassionati avranno già avuto modo di apprezzare i quattro video che hanno accompagnato questa uscita. Io, da parte mia, ho il compito di ampliare la visuale e commentare le sensazioni provocatemi da questo disco. Partirei proprio dal primo singolo scelto, ovvero “Planet Eaters”. In questo caso si potrebbe parlare di uno dei brani più semplici dell’intero lavoro ma questa asserzione non deve fuorviarvi. Ci sono sempre i molteplici cambi che caratterizzano le composizioni del combo francofono e sono più di quelli che alcuni gruppi inseriscono in più canzoni messe assieme. Il secondo singolo, “Paranormalium”, mi ha fatto pensare ad alcuni accordi Free Jazz riportati in chiave Metal, alternati a fasi claustrofobiche e ritmiche spezzate. Il terzo singolo: l’omonima “Synchro Anarchy”, ci porta a spasso nel cosmo e ci fa ammirare virtualmente frammenti di asteroidi e “rottami spaziali”. Anche “Mind Clock” ci indica musicalmente una certa dispersione mentale e lo fa attraverso accordi “decadenti” e una buona dose di riff intricati. “Sleeves Off”, uscita da pochi giorni come quarto video, è un continuo fermarsi e ripartire con inserti caratteristici del Thrash Metal. “Holographic Thinking” è una canzone particolarmente bella: psichedelica, spaziale, con cambi totali, gode di un solo di chitarra a cura di Chewy (Daniel Mongrain) piazzato su una ritmica inusuale. “World Today” è un altro bel pezzo caratterizzato dai giri di basso di Rocky (Dominique Laroche) e dal finale in crescendo. “Quest For Nothing” è caratterizzata da una certa cattiveria sonora alternata a fasi epiche e stop and go. “Memory Failure” segue la classica scia delle composizioni del combo e non aggiunge nulla di nuovo a ciò che ho detto. Se non conoscete i Voivod e avete voglia di musica immediata e fruibile lasciate perdere questo disco; potrebbe disturbarvi. Se invece siete dei fan del quartetto, o siete ascoltatori aperti a territori musicali sconfinati, “Synchro Anarchy” è ultra consigliato. Se fossi in voi, tra i vari formati disponibili, sceglierei quello che ha come bonus il CD “Return To Morgoth – Live 2018”.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    07 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 07 Febbraio, 2022
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Ogni qual volta che si nominano i lombardi GunJack viene naturale accostarli ai Motörhead. La voce di Mr. Messerschmitt (Alessandro Dominizi), è ruvida come la carta vetrata e rotta dal bere e dalle sigarette e il suo basso pulsa e “rotola” al servizio di un ritmo che ricorda spesso la band di Lemmy, innestandosi su ritmiche veloci. Come se non bastasse la batteria di M47 (Andrea Ornigotti), corre come un treno, e le chitarre di Gamma Mörser (Fabio Cavestro), si perdono talvolta in fraseggi a spirale degni di canzoni come “Metropolis”; ma sono capaci anche di soli “disordinati” a tutta velocità. Se i primi due dischi del terzetto italiano erano compatibili in pieno con quanto scritto sopra per il terzo disco: “The Third Impact”, le cose sono parzialmente cambiate e ribadisco parzialmente. Il basso è stato reso più “saturo” e distorto e contribuisce con il suo suono a creare un clima plumbeo degno di una giornata che promette tempesta: un fenomeno che a volte è solo una minaccia, mentre altre volte si manifesta con un nubifragio vero e proprio. La batteria, invece, mantiene il suo corso più o meno veloce, attenendosi al tempo. Se devo dire qualcosa sulla resa punto il dito contro le chitarre: vanno benissimo i soli impazziti ma, a volte, sarebbe stato meglio calibrarli e farli aderire meglio al ritmo. I GunJack hanno cercato di smarcarsi parzialmente dal loro status inserendo in alcuni dei dodici pezzi del disco delle fasi epiche e oscure e questo, tutto sommato, gli è riuscito bene. Io non mi fermerei al confronto con i Motörhead, ma tirerei in ballo anche gruppi come i Sodom - poteva mai essere altrimenti? - o Nuclear Assault - la partenza dopo la cadenza massiccia di “Meltdown” dice tutto - oppure ancora i nostrani Baphomet’s Blood e, perché no?, i Bulldozer, vedasi il primo singolo/video ”Heart of Tank”. Le cose più strane del disco, almeno per ciò che riguarda la band come la conoscevamo, sono l’iniziale “Dagon”, un pezzo oscuro dai cori inquisitori, e la strumentale “Coma”, la quale ha dei passaggi di chitarra da una cassa all’altra che mi hanno vagamente ricordato l’inizio “Run Like Hell” dei Pink Floyd. Brani da ascoltare? Io vi suggerisco “The Tournament”, che possiede una cadenza pesante come un macigno e un’apertura di stampo nordico e “Destroy the Seventh Seal”, un continuo alternarsi di cambi, riff spezzati, break e ripartenze. “The Third Impact” è adatto ai gusti di coloro che amano il suono grezzo, veloce e primitivo, ma potrebbe piacere anche ai metallari che prediligono qualche stop per far riposare le orecchie.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    02 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 02 Febbraio, 2022
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E’ difficile pensare al Canada come una terra fertile per ciò che concerne l’Heavy Metal eppure, da qualche anno a questa parte, si sono moltiplicate band ed etichette che hanno voglia di pubblicare dischi ed esportarli al di fuori dei patri confini. I Maule, nati a Vancouver nel 2017, raccolgono il vessillo della N.W.O.B.H.M. e nel loro esordio sulla lunga distanza dal titolo omonimo, piazzano nove pezzi con l’intenzione di far rivivere quel periodo così importante per la storia del metallo. Quando ascoltate i primi due dischi degli Iron Maiden soffrite di nostalgia e vi chiedete perché nessuno, o quasi, suoni in quel modo oggigiorno? Almeno quattro pezzi del disco su nove presenti fugheranno questo senso di tristezza. Il bassista Johnny Maule, il batterista Eddie Riumin e le twin guitars appannaggio di Jacob Weel (chitarra ritmica e cantante) e Daniel Gottardo (chitarra solista: oggi sostituito da Justin Walker) infatti, hanno imparato, bene, la lezione di Steve Harris & co. Non aspettatevi da Weel la voce di Paul DìAnno: la sua è più “acida” e raspante di quella del vecchio leone malandato. Ascoltate “Evil Eye”, “Ritual” e “Summoner”: arriverete alla mia stessa conclusione, ovvero che la tonalità è più adatta al genere Speed/Thrash. Attenzione perché la band è in grado anche di premere il pedale sull’acceleratore come avviene nel brano - manifesto “Maule”. I testi del gruppo sono incentrati su storie di vita e di morte ma ci sono anche delle digressioni letterarie supportate da un cambio di ritmo sonoro improntato allo Speed Metal. E’ il caso di “Red Sonja”: canzone musicalmente ben strutturata dedicata all’eroina creata da Robert E. Howard e portata nel mondo dei fumetti dallo scrittore Roy Thomas e dall’artista Barry Windsor Smith (disegnatore Marvel, di Conan e della serie “Rune”). Se in “Sword Woman” sembra di ascoltare per lunghi tratti gli Iron Maiden a 45 giri, in “Father Time” il ritmo subisce un drastico rallentamento andando a toccare temi epici e oscuri. In “March Of The Dead”: brano dalla cadenza media ammantato di nuovo da toni epici, le chitarre svolgono un ruolo fondamentale e “lavorano” incessantemente. La conclusiva “We Ride”, grazie ai suoi numerosi cambi, lascia nell’ascoltatore una buona impressione e fa ben sperare per un futuro secondo lavoro dei Maule. Se riuscite a bypassare lo scoglio di una voce arcigna che imperversa in tutti i brani e non cercate la novità a tutti i costi, vi consiglio l’ascolto di questo disco; potrebbe rappresentare un piacevole balzo all’indietro nel tempo.

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352 risultati - visualizzati 61 - 70 « 1 ... 4 5 6 7 8 9 ... 10 36 »
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