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Opinione scritta da Corrado Franceschini

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    21 Mag, 2023
Ultimo aggiornamento: 21 Mag, 2023
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Una band che è in giro dal 2005, Un titolo che rimarca come, nonostante lo scorrere del tempo, la fiamma arde ancora e il rinnovato connubio con un’etichetta “storica” come l’Underground Symphony. Queste piccole note servono ad inquadrare i Tarchon Fist e il loro ultimo lavoro. I T.F. formano un team compatto che tira dritto per la sua strada lastricata di Heavy Metal e, talvolta, di Hard Rock. Se il precedente album era un concept (“Apocalypse”: Voto 3/5) questa volta i felsinei, complice il periodo di pandemia, hanno partorito un lavoro più “esistenzialista”, con testi ispirati per lo più alla realtà e ad alcuni eventi del relativamente recente passato. Una voce, quella di Mirco Ramondo, che quando vola alto rende al meglio, la coppia di asce Tattini/Rizzo che coopera in sincrono alla grande mentre, talvolta, nei soli va fuori dalle righe, e una sezione ritmica (Pazzini/Lauretani) che pulsa e gira a pieno regime. Questo ensemble da vita ad un suono che s’ispira a gruppi come Iron Maiden, Running Wild, Judas Priest e, in maniera minore, Dokken e Malmsteen. Ascoltate “Lens Of Life”: con una produzione più accurata non sfigurerebbe in un album qualsiasi della Vergine di Ferro. “Wolfpack” ha un animo piratesco e sembra uscita dalla penna di Rock ‘N’ Rolf Kasparek (Running Wild). Il pezzo si snoda fra controtempi e palesa oltre alla voce di Mirco Ramondo, una voce da soprano, quella di Francesca Maria Boscaro, ben integrata nel ritmo. “Soldiers In White” sfodera un riff classico e tagliente ed è dedicata agli infermieri che hanno lavorato duramente durante la pandemia. “9/11”, invece, si sofferma sulla strage dell’undici settembre 2001, quella alle torri gemelle di New York. Ho cercato in rete il testo e vi consiglio di leggerlo: vi troverete un punto di vista per niente scontato e un esito finale drammatico. Se amate le atmosfere della NWOBHM “The Man” è derivata direttamente da quell’aureo periodo. Molto strano il brevissimo intermezzo centrale che mi ha fatto pensare alle Bangles, quelle di “Walk Like An Egyptian” (?). Mi preme segnalarvi l’ultima traccia, “The Legend Of Rainbow Warriors”, che si culla fra le onde dell’Hard Rock melodico farcito con cambi a volontà. Se “The Flame Still Burns” avesse usufruito di una produzione migliore - in questo caso è stata curata dagli stessi Tarchon Fist con risultati alterni - saremmo di fronte ad una gemma di gran caratura. Il disco comunque risulta lodevole e mai monotono e per questo, si merita un bel sette e mezzo.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    15 Mag, 2023
Ultimo aggiornamento: 15 Mag, 2023
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Con i fiumi d’inchiostro che sono stati versati per raccontare e descrivere il movimento della New Wave Of British Heavy Metal, dovreste già essere in possesso delle nozioni riguardanti i Tygers Of Pan Tang. Di mio aggiungo che nel 2022, dopo l’uscita dell’EP di quattro pezzi intitolato “A New Heartbeat” (voto su Allaroundmetal 4.5/5), la band ha sostituito il bassista Gav Gray con Huw Holding (ex-Blitzkrieg e Avenger) ed è partita per un tour. Nel 2023 troviamo il quintetto alle prese con nove tracce inedite più l’edita “A New Heartbeat”: dieci canzoni che costituiscono l’ossatura del nuovo “Bloodlines”. Robb Weir, chitarrista e unico membro rimasto della formazione originale, guida i suoi pards sulle strade dell’Heavy Metal ma, spesso e volentieri, travalica i confini per andare a trovare il fratello maggiore: l’Hard Rock. Nella fase iniziale di “Edge of The World” le tigri si trovano acquattate nell’erba alta, per poi sferrare dopo pochi secondi un assalto aggressivo, che si stempera in un ritornello vincente accompagnato dalla potente voce di Jacopo “Jack” Meille e da sapienti armonizzazioni. “In My Blood” viaggia sui sentieri dell’Hard Rock dal tipico ritmo medio accorpandolo con fasi di densa melodia. “Fire On The Horizon” riprende il percorso lasciato dai Tygers all’epoca dello strepitoso “Spellbound” e lo interseca con quello dei Judas Priest, per poi passare ad una velocità elevata. “Light Of Hope” è sorretta da riff massicci e da una voce che si staglia come un’aquila che vola nel nido del Rock duro. “Back For God” è stata creata per far cantare e divertire il pubblico in concerto. Fate conto di ascoltare i Deep Purple che hanno ingurgitato del vino frizzante o dello spumante, se preferite. Belli il cambio del ritmo e la voce, entrambi in levare. Dopo tanta energia spesa, ci vuole un attimo di relax a digerire il pasto in una fresca oasi: la leggiadra “Taste of Love” serve a tale scopo. Se dovessi fare il paragone con un’altra band sceglierei quella della premiata ditta Catley/Clarkin, i Magnum. Possono andare d’accordo tigri, un serpente bianco (D. Coverdale) e un cavallino rampante (Malmsteen: noto appassionato della Ferrari)? Musicalmente sì: il risultato è “Kiss The Sky”. Laddove la dura vita della savana si fonde con la pesante vita della giungla (Hard n’ Heavy, per capirci) nasce “Believe”. Al nono posto della scaletta i tigrotti ripropongono la variegata “A New Heartbeat”, per poi concludere con i passi felpati ma agili che fuoriescono da “Making All The Rules”. Robb Weir ha da tempo riposto la sua fiducia in validi musicisti fra i quali ci sono gli italiani Jacopo Meille e Francesco Marras (chitarre) e, visti i risultati, non gli si può dar torto. Spero che il ruggito della tigre ci accompagni per molto tempo ancora: ne abbiamo bisogno

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    13 Mag, 2023
Ultimo aggiornamento: 13 Mag, 2023
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Conoscevo Michele “Mike” Bertoli come speaker radiofonico, ma non sapevo che fosse anche un chitarrista. Dopo una militanza negli Sky Devils (un demo all’attivo) e negli Astras (un album), Mike ha dato uno stop deciso alla sua carriera fino a che, aiutato dall’amico Nik Capitini, ha messo in piedi il progetto Avatar. Sono stati molti gli ospiti che hanno prestato la loro opera nelle otto tracce di “The Giant Within” e, dai nomi coinvolti, ciò avrebbe dovuto garantire un valore aggiunto e una qualità sopraffina. Non sempre tutto è andato per il verso giusto, ma non disperate: il disco ha anche degli aspetti positivi. Continuando nell’analisi, se da un lato è stato lodevole il fatto di avere lasciato ai diversi cantanti l’opportunità di creare le linee vocali adatte al proprio timbro e “credo musicale”, dall’altro è stato creato un disco molto “frazionato”. Nik Capitini, oltre a fornire le linee di basso di quasi tutti i pezzi, è stato anche l’autore di mixaggio e mastering ed ha dovuto far fronte ad una mole di lavoro imponente. Ciò ha portato ad un risultato finale che manca di potenza e rotondità del suono ed è un peccato perché alcuni pezzi funzionano. Molto bella “Valley of Death”: un Heavy energico dai riff stampati, che vede alla voce un Goran Edman (Malmsteen, Norum ecc) veramente in forma. “Learning From The Past” alterna blocchi duri e partenze in corsa, con la voce di Roberto “Rob” Della Frera (Love Machine) che marca il territorio con grande piglio. Bello e ben inserito nel contesto, il solo di Mike Bertoli. “Sense of Freedom” è riuscita dal punto di vista vocale: al canto c’è Ian Parry (Elegy, Tony Martin ecc.), ma l’arrangiamento, soprattutto nella fase centrale non è soddisfacente. Pollice in su per “Alive Again”, che vede alla voce Val Shieldon (ex-Sigma). Il pezzo ha un bell’incedere arrembante ed il solo di chitarra di Roberto Cardinali (R.I.P.) segna il ritmo in velocità con la dovuta grinta e tracotanza. “Devil’s Bridge” è un pezzo in stile Pantera, ma non mi ha convinto. Poca potenza nel suono e una voce, quella di Jacopo “Jack” Mascagni, che per essere ai livelli di Phil Anselmo o del Max Cavalera dell’era di “Roots”, deve migliorare. Credo che Mike abbia accumulato nel tempo un po' di ruggine e che debba scrollarsela da dosso. In questo modo troverà la via giusta sia per comporre che per suonare al meglio: visto che ha imbracciato la chitarra sin dall’età di tredici anni le capacità non gli mancano di sicuro. Per il momento, sufficienza garantita.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    03 Mag, 2023
Ultimo aggiornamento: 03 Mag, 2023
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Ci può essere qualcosa di nuovo da dire su una band come gli Spitfire che, se pur a fasi alterne, è presente nel mondo del Metal italiano sin dal 1981? Certamente! Iniziamo dal nome che è stato completato con Mk III per omaggiare i Deep Purple, per suggellare il tipo di formazione: da quintetto a quartetto e poi a terzetto, e per confermare l’unione di tre musicisti nel nome del Rock. Vale la pena spendere due parole sul concetto e sul progetto grafico che stanno dietro a “Shadows Phantoms Nightmares”. Interessante vedere come nel booklet sono riportati manifesti a volte “personalizzati” a volte no, con personaggi che gli appassionati cinefili del genere Horror conoscono bene come “Creature Of The Black Lagoon”, la simpatica e avvenente Elvira - Mistress of the Dark o il terrificante Nosferatu il vampiro (film del 1922 accreditato come “Despair” sul manifesto nel booklet). Il manifesto de “I Guerrieri Della Notte” con rappresentata la canzone “Gangs Fight”, poi, fa ben capire lo spirito che anima i musicisti. Altro aspetto che non si può trascurare è quello del suono. Ho ascoltato il CD in cuffia e devo dire che il lavoro svolto da Fabio Serra (registrazione e mixaggio) e Roberto Priori (Mastering) è veramente sopraffino. Passando ai musicisti e cioè Giacomo “Giga” Gigantelli (voce e basso), Stefano Pisani (chitarra), due veterani della scena, e Luca Giannotta (batteria), i tre sanno suonare bene e lo dimostrano negli undici brani; dodici nella versione CD, del disco in questione. Dopo tanti fattori positivi vi starete chiedendo se c’è qualche “ombra”. Sicuramente siamo di fronte ad un CD nel quale i più esperti in materia di Metal troveranno numerosi richiami a gruppi esteri blasonati e molto conosciuti ma, d’altro canto, nell’Hard n’Heavy degli ultimi quindici anni, scovare un briciolo di originalità è diventato praticamente impossibile. Sono persuaso del fatto che “Earthquake” sia una sorta di omaggio “vitaminizzato” ai Deep Purple di “Higway Star”: ascoltate il riff portante e ne converrete. Dopo la ruvida “The Eagles Are Laughing”, gli animi si scaldano e parte una galoppata a nome “Phantom Barrow”: uno dei tre pezzi composti negli anni '80 e rimasti inediti fino al 2022. Bello il solo su ritmo aperto, che si colloca fra l’inquieto e il pindarico. ”Once it Was Human (The Fly)” esce fuori dagli schemi grazie ai numerosi cambi e a fasi Progressive Metal suffragate dai cori: con le dovute proporzioni sembra di sentire i Dream Theater di “A Fortune in Lies”. Dopo tanto correre era lecito aspettarsi qualcosa di più blando ed è così che si palesa “Spirit of The Blind Man” con validi echi di tastiere e cori. “Screaming Steel” è costituita da un ritmo roccioso affiancato a cambi medi e lenti. “Gangs Fight” è un Hard n’Heavy a briglia sciolta con un ritornello giocato su parole classiche per il genere. “Golem Of Prague" è una miscela fra i Saxon di “We Came Here to Rock” e i Judas Priest di “Turbo Lover”; bello il solo tagliente ad opera di Stefano Pisani. “Sign of the Times” è sorretta da un riff robusto accompagnato dalla melodia: un mix fra Saxon e Dio. “Beauty VS Beast” viene presentata come la canzone che segna il nuovo corso degli Spitfire Mk III. Il pezzo inizia con una chitarra acustica (suonata da Fabio Serra) che “gioca” nel canale destro e sinistro, e si sviluppa attraverso numerosi cambi di ritmo. “Winners Take All” mescola riff aggressivi e Hard Rock di stampo americano assemblati con una chitarra in gran forma. La conclusiva “Despair” che, vi ricordo, è la bonus track del CD, è tutt’altro che inutile o, come spesso accade, uno “scarto”; è un arrembaggio sonoro degno di una scorreria compiuta in piena libertà. Un basso spesso in evidenza, una chitarra per lo più aggressiva, una batteria degna compagna di ritmo e le tastiere dell’ospite Pier Mazzini che non risultano mai invadenti ma che, anzi, sono al servizio del ritmo e lo impreziosiscono con tocchi delicati e brevi incursioni. Se solo ci fosse stata un tocco di originalità in più saremmo di fronte a un disco perfetto ma accontentiamoci. Se questi “dinosauri” esaurissero la loro passione per la musica chi prenderà in mano lo scettro del comando? Ai posteri l’ardua sentenza.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    18 Aprile, 2023
Ultimo aggiornamento: 18 Aprile, 2023
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La band Star Rider nasce dall’incontro avvenuto in maniera fortuita fra Chainsaw Charly (chitarra) e Kim Saxx (voce). Dopo la stabilizzazione a quintetto, a novembre 2022 in concomitanza con il primo concerto tenuto a Lione, esce l’EP omonimo di quattro pezzi. Non vi è traccia di originalità in “Star Rider”, inoltre, in alcune fasi di questo debutto, ci si trova di fronte a una band piena di foga ma anche parzialmente inesperta. “Give Me Speed (Or Give Me Death)” è un Heavy veloce e potente che non convince a causa di un mixaggio deficitario. “Burning Star” sfrutta il riff nel coro di “Too Young To Fall In Love” dei Mötley Crüe, velocizzando il ritmo e presentando due chitarre che lavorano incessantemente. “Out Of The Cave” è puro Heavy Metal situato fra i classici Judas Priest e gli enfatici Running Wild: peccato che la prestazione del batterista Duncan Chamieh sia alquanto “disordinata”. “Too Fast To Die” è un pestone in piena velocità ed è molto simile a ciò che erano soliti proporre i nostri Fingernails oppure, per chi preferisce i paragoni con band estere, è un incrocio fra Exciter e Metallica del primo periodo. Il combo francese a mio avviso ha bisogno di maturare ancora un po’ e per questo, il disco non raggiunge la sufficienza. Se i cinque avranno la costanza di andare avanti, sono sicuro che potranno regalarci dei bei momenti.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    15 Aprile, 2023
Ultimo aggiornamento: 15 Aprile, 2023
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Questa recensione è abbastanza particolare e vi spiego il perché. Nel 2019 i Power And Glory, progetto solista nato nel 2018 per volere del chitarrista argentino Herman Chaves, fanno uscire “The Last Rebel”. A febbraio 2022, con una formazione comprendente - oltre a Chaves - il batterista Manuel Sosa e il cantante Jorge Arca Goya, è uscito il secondo disco dal titolo “Road Werewolves”. Nel settembre 2022 l’etichetta Steel Shark Records ha fatto uscire una confezione con il secondo album più il primo lavoro come bonus CD; il tutto in edizione limitata a trecento copie. La musica di “The Last Rebel”: otto brani su nove sono strumentali, poggia su un solido Heavy Metal in cui la chitarra di Chaves imperversa in lungo e in largo sciorinando diverse tipologie di soli con un suono che somiglia a quello di Don Dokken, John Norum (vedi il brano “The Last Rebel”) o a quello delle asce dei Judas Priest, anche nel modo di composizione, come in “Power and Glory”, in cui ai 3:06, sembra di ascoltare “Hell Bent For Leather”. In “Shout”, pezzo che ricorda sia i Dokken che i W.A.S.P. e unico ad essere cantato (per motivi di diritti dovuti ad altri vocalists le altre tracce sono strumentali N.d.A.), possiamo ascoltare la voce femminile non proprio impeccabile di Romina Porcelli. Peccato perché la canzone ha delle potenzialità ed è accattivante. Dopo aver esaminato il bonus CD, passo all’ultimo lavoro “Road Werewolves”. C’è da dire che dal lato della precisione della batteria e della pulizia sonora ci sono dei notevoli miglioramenti che portano ad una buona resa. Dove non tutto fila liscio è quando in alcune fasi del disco si sovrappongono più chitarre: vi ricordo che sono tutte appannaggio di Chaves, e viene creato un riempimento nel ritmo che risulta invasivo. Nonostante ciò il disco risulta essere di buon gusto e appassionante. Oramai l’avrete capito: il genere è l’Heavy Metal classico pieno di carica, quello di nomi come Judas Priest e W.A.S.P. (questi ultimi sono stati debitamente “energizzati”). Si potrà obbiettare che i dieci brani non presentano segni di originalità, ma laddove molte band si trascinano stancamente, i Power And Glory iniettano linfa vitale dovuta alla loro voglia di suonare e di volere emergere. “Mayhem”, intro strumentale, è una deflagrazione di chitarra che ci porta a iniziare il viaggio. Inforcate la moto, accendetela, e correte a ritmo forsennato sulle note di “Freedom Rider”. Ho parlato di Heavy Metal classico ed una delle migliori testimonianze del genere è fornita da “No Guts No Glory”. La voce di Goya in questo caso è capace di raggiungere le più alte vette, quelle che solo Rob Halford sapeva toccare. Anche “Give Me Speed” segue le orme e le note, comprese quelle chitarristiche, dettate dal Sacerdote di Giuda. “Sharp As Steel” affida il suo destino a un ritmo medio e ad una chitarra che è padrona e sovrana. “Out Of Control” è figlia di un Power battente: fate conto di sentire i W.A.S.P. che hanno ingurgitato una scatola di bustine vitaminizzanti. “Born To Win” segue la scia musicale dettata dal brano precedente. In “Road Werewolves” torna a farci compagnia il sound dei Metal Gods per eccellenza anche se, mi preme dirlo, il coro che dovrebbe servire a far cantare il pubblico in concerto è mal strutturato e fiacco. “Street Metal” offre in dote una chitarra troppo tracotante: a mio avviso non c’era bisogno di esagerare così tanto. La conclusiva “Danger” è un Heavy in media cadenza dal titolo – anthem che si rifà ai… se avete letto sino ad ora ci potete arrivare da soli! Anche in questo caso le sovra incisioni delle chitarre da parte di Chaves sono particolarmente eccessive. Se avete bisogno di ritrovare la perduta giovinezza fatta di headbanging - per i più vecchi è consigliato battere il piede a tempo onde evitare cervicale acuta - “Road Werewolves” è il disco adatto allo scopo.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    04 Aprile, 2023
Ultimo aggiornamento: 04 Aprile, 2023
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Vi siete appena svegliati e non avete voglia di affrontare la giornata che vi aspetta? Fate uno sforzo; alzatevi, andate allo stereo, e inserite nel lettore il CD “Electric Elite”. I Riot City gruppo nato nel 2011 a Calgary (Alberta, Canada), hanno il potere di dare una scossa alle vostre sopite membra e fornire una buona dose di energia e combattività. Il secondo album del quintetto poggia le basi sul Power e sullo Speed Metal, generi nei quali è assai arduo trovare forme di innovazione. Il gruppo però si fa apprezzare grazie a un’ottima perizia strumentale, alle chitarre che viaggiano bene sia all’unisono che nei soli e una voce da vero screamer come è quella di Jordan Jacobs. Basta l’apripista “Eye Of The Jaguar”, un “pestone” veloce con cambio alla Iron Maiden, per capire che la band non scherza affatto. “Beyond The Stars” è un frullato di Iron e Judas con soli di chitarre modello Running Wild. “Tyrant” è il tipico masso da una tonnellata che schiaccia inesorabilmente l’ascoltatore e poi lo finisce con un assalto Power rinforzato da cori enfatici. “Ghost Of Reality” è subdola, vi frega con il suo inizio che passa dal lento al medio e poi parte ad una velocità che arriva all’estremo. “Return Of The Force” possiede riff repentini, chitarre in fuga, voce che vola altissima e titolo cantato in coro. In questo caso voglio fare un plauso ai chitarristi Cale Savy e Roldan Reimer per l’eccellente lavoro svolto. “Paris Nights” vede l’alternarsi di ritmi a media velocità, con cavalcate supportate da una voce abbastanza versatile. “Lucky Diamond” non può non far pensare ancora una volta al gruppo di Steve Harris. La conclusiva “Severed Ties” è parzialmente diversa dal resto del disco dato che possiede una certa vena melodica e un uso delle chitarre in stile classico/barocco piazzate nella fase centrale. Se oltre ai gruppi che ho citato prima vi piacciono Raven, Accept, Exciter, Helloween, Dio e compagnia bella, “Electric Elite” merita di stare nel vostro scaffale dei CD’s.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    29 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 29 Marzo, 2023
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Non si può certo dire che i Bad Bones siano una band prolifica in fatto di album, dato che in sedici anni (2007 - 2023) ne hanno rilasciati sei però, ogni volta che ne esce uno, il gruppo di Cuneo si imbarca in un lungo tour portando in giro la propria musica e la voglia di suonare dal vivo. Guidati dal veterano Steve Balocco (basso) i Bad Bones consolidano la fratellanza nel nome del Rock reintegrando in formazione il chitarrista/cantante Mekk Borra e mantenendo saldo Lele Balocco alla batteria. Ho scritto il termine generico Rock perché negli otto pezzi di “Hasta el Final!”, album dedicato alla memoria di Andrea “Benny” Bernini - figura conosciutissima in ambito Metal come organizzatore di concerti e grande appassionato di musica - è difficile trovare uno stile dominante. “Bandits”, primo pezzo e primo singolo, parte da un incipit con basso accordato in stile New Wave, passa allo Speed e va con un break a più chitarre alla maniera degli Iron Maiden. “Behind The Liar’s Eyes” segue i dettami dell’Hard Rock, incapsulando un solo che si sposa bene con la melodia. Con “Rattlesnake” la band torna al sempiterno amore: lo Street/Hard Rock americano. Fate mente locale e immaginate un film per teenagers di quelli che spopolano in America: “Wanderers & Saints” sarebbe giusta parte integrante della colonna sonora. Il brano è fra i meglio riusciti, ma il solo di chitarra a scale mostra uno schema troppo ripetuto all’interno del disco. “Sand On My Teeth” mi è parsa un poco sguaiata e fiacca. In “Libertad” ho trovato una leggerezza che va dal suono americano a… Ligabue. A mio avviso il produttore Riccardo Paravicini, già al lavoro con Niccolò Fabi, Max Gazzè, Levante e Marlene Kuntz, ci ha messo lo zampino facendo girare il potenziometro sul soft. “To Kill Somebody” è un Punk n’ Roll bello carico, e riporta la band su strade più consone. “Home” è un bel Hard Rock “ignorante” sorretto da una chitarra valida e diversa dai soliti canoni; a completare il tutto troviamo un ritornello vincente e facilmente memorizzabile. Si chiude così un CD ben più che sufficiente, ma dall’andamento sinusoidale.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    15 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 15 Marzo, 2023
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Nati nel 2013 per volere del cantante e chitarrista Simone Tepedino, i Binge Drinkers da Vignola (MO) sono passati da un suono ispirato al Thrash a una miscela fatta di Grunge, Southern e Blues espressa nell’EP del 2019 “A Rock ‘n’ Roll Odyssey”. A novembre del 2022 il trio ha fatto uscire l’EP autoprodotto “Muerte – An Apology of V Acts”, contenente cinque brani. Trovo per certi versi coraggiosa la scelta dei Binge Drinkers di far uscire un concept che analizza la visione della morte secondo la cultura spagnola, usando testi che alternano proprio la lingua spagnola con quella inglese all’interno dello stesso pezzo. La metamorfosi del terzetto in campo musicale si è compiuta di nuovo. Niente Southern né Blues questa volta, bensì melodie tipiche del flamenco andaluso, mischiate con fasi legate all’Hard Rock, ai Metallica e agli Iron Maiden. La strumentale “Act I – Ouverture: a Las Cinco de La Tarde” inizia con un malinconico flamenco che vira verso una galoppata gitana dai tratti ascrivibili alla Vergine di Ferro, con divagazioni sul tema fornite dalle chitarre (sovra incise). “Act II – Death In the Afternoon” batte i sentieri dell’Hard Rock alternando cadenze e ritmi serrati. “Act III – Cult” passa da una fase massiccia, a un break stile Metallica con successiva partenza veloce e chitarre che l’accompagnano fino alla fine. “Act IV – The Dance of Tragedy” è la canzone che ho trovato più strutturalmente dotata. Da un momento che ricorda “Innuendo” dei Queen, si approda a ritmi Hard Rock in grado di spiazzare piacevolmente l’ascoltatore; anche in questo caso, in un frangente, si può apprezzare la presenza del Metallica sound. “Act V – Sangre” possiede un ritmo parzialmente oscuro adagiato su una cadenza media ma, anche in questo caso, i tre amigos non rinunciano a una fuga in velocità. Se devo muovere un appunto ai Binge Drinkers lo rivolgo, cosa già evidenziata in un mio precedente live report, alla voce di Simone. Con un concept di tale portata e con una lingua come lo spagnolo, ci voleva un cantato evocativo e avvolgente che rendesse al meglio il pathos di un argomento così ferale come quello scelto. Purtroppo la voce risulta inadeguata per larghi tratti ed è un peccato visto che il resto è più che sufficientemente valido.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    10 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 10 Marzo, 2023
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Il secondo disco dei piemontesi Flying Disk, “Urgency”, uscito nel 2018, mi aveva convinto grazie alla sapiente miscela di generi diversi che il gruppo aveva saputo incasellare negli otto brani, riuscendo a creare un lavoro vario e interessante. A quattro anni di distanza, a ottobre 2022, è uscito l’EP di quattro pezzi “In The Heart Of The City”, pubblicato come coproduzione fra quattro etichette, sia in streaming che su vinile. Nel caso del recente EP viene ovviamente a mancare l’”effetto sorpresa”. Ciò che non manca, grazie alla registrazione effettuata nello studio del bassista Francesco Martinat - sostituto di Luca Mauro - e al mastering a cura di Jonathan Nunez dei Torche, svolto al Sound Artillery Studio di Miami, è un suono che mantiene una compattezza e un equilibrio ottimi. Si parte con “Wasted”, pezzo che ondeggia fra Wave, Punk e Alternative. Con “Sunrise” ci inoltriamo in un terreno desertico al suono di una musica dai dettami Grunge/Stoner, con la chitarra di Simone Calvo che entra a gamba tesa a spezzare il ritmo. “Tell Me Of The Sun” sa di Punk moderno alternato a un refolo di Marlene Kuntz e vive di stop n’go inframmezzati da uno stacco di basso che porta a un Rock grezzo. “Connections” ci fa ripiombare in pieno deserto oppure, se preferite, in un’assolata città del Messico all’ora della siesta, dove persino le foglie si trascinano stancamente. Il supporto musicale è garantito da un suono che si avvicina a quello dei Kyuss. In poco più di dodici minuti i Flying Disk si confermano dei buoni “creatori” ed esecutori musicali. I primi mesi del 2023 vedono i Flying Disk in tour un po’ in tutto il Nord Italia: il mio consiglio è quello di andare a supportarli: non ve ne pentirete.

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